La Lettura, 2 marzo 2025
Svizzera sovrana. O sovranista
Nessun attacco all’Europa e ai suoi valori. «J. D. Vance ha fatto un discorso liberale, in un senso molto svizzero», ha detto «che bisogna ascoltare la popolazione» e ha parlato di «valori da difendere e che noi condividiamo, come la libertà e la possibilità per la popolazione di esprimersi». Il suo è stato «un appello alla democrazia diretta». Firmato Karin Keller Sutter, presidente della Confederazione svizzera. Con queste parole sul contestatissimo intervento del vicepresidente statunitense J. D. Vance a Monaco il 14 febbraio, l’esponente liberale radicale che riveste la prima carica istituzionale elvetica ha scatenato una ridda di reazioni in un Paese dove la polemica politica raramente si accende ad alti livelli.
Qualcuno, soprattutto a sinistra, ma anche nello stesso Partito liberale radicale, vi ha letto un tentativo di riposizionare a destra l’ago della bilancia della politica estera di Berna, allontanandolo dai rassicuranti e tradizionali punti cardinali della mediazione e della neutralità per avvicinarlo alle posizioni populiste e sovraniste. Posizioni che, peraltro, in un passato non lontano hanno trovato terreno fertile proprio in Svizzera, ritenuta dallo storico Damir Skandovic un laboratorio di populismo negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso grazie all’Azione Nazionale (An) di James Schwarzenbach, primo partito del dopoguerra a porre l’immigrazione nei suoi programmi.
Certo, dipingere quale emblema della svizzerità qualcuno per cui «il vero nemico dell’Europa non è la Cina o la Russia, ma si trova all’interno, in quei governi che non ascoltano il loro popolo e che, al contrario, reprimono le voci dissidenti, portando a un vero declino della libertà di espressione» non era forse nelle intenzioni di Keller Sutter, che ha peraltro prontamente corretto il tiro. Ma l’infortunio diplomatico risuona come l’eco di una vicinanza storica, sul piano politico-istituzionale, tra la Svizzera e gli Usa, sostanziata nell’idea, a lungo coltivata sulle due sponde dell’Atlantico, che i due Paesi siano «repubbliche sorelle»: emblemi di sistemi democratici in cui la voce del popolo si può esprimere in via diretta, aggirando le lungaggini della rappresentanza su molti capitoli del vivere comune. Due Sonderfall, «casi particolari», che ne definiscono ruoli e destini in contrapposizione con l’Europa, vuoi per la distanza e l’afflato interventista extraconfini degli Usa, vuoi per la scelta – nel caso della Svizzera – di non sottostare alle stesse regole degli altri Stati europei, rifuggendo dopo il Cinquecento la guerra guerreggiata (preferendo rifornire i vicini belligeranti di mercenari) per sposare la neutralità quale strumento principe di azione politica.
Ma è, ed è stato, davvero così? La situazione è più complessa e articolata. La Confederazione, e prima ancora quel grumo di Cantoni che strinsero fra loro, dal Basso Medioevo, patti di mutua assistenza e difesa, è stata in realtà saldamente integrata nell’Europa. E prima di costituire il collante in grado di tenere insieme storie, idiomi, culture e tradizioni diverse dentro i medesimi confini, la sua neutralità – sancita formalmente dal Congresso di Vienna nel 1815 – è stata funzionale alla tenuta degli equilibri politici fra le grandi potenze europee. Non fosse stata utile agli altri, insomma – vedi il secondo conflitto mondiale, quando le pressioni del Reich e degli Alleati ne misero in forse la tenuta – essa sarebbe stata molto probabilmente spazzata via.
Proprio al tema della neutralità, declinata lungo il suo sviluppo storico successivo alla sconfitta di Marignano (per mano francese) del 1515 e connessa alla costruzione dell’identità nazionale di un Paese che, scrisse Orson Wells, «in cinquecento anni di pace ha inventato solo gli orologi a cucù», è dedicato il volume di Maurizio Binaghi, uscito per la collana Fact Checking di Laterza con il titolo La Svizzera è un paese neutrale (e felice). Lo storico ticinese in poco più di 300 pagine traccia un’accurata storia controfattuale del suo Paese, mettendo sotto la lente i tanti cliché che lo identificano nell’immaginario collettivo (cioccolato, bellezza delle Alpi, banche, orologi...), ma rileggendo soprattutto pagine importanti del suo passato, che ne hanno fatto un modello di successo, con un’economia solidissima in tutti i parametri. Un Paese che è però «un’invenzione fragile», prodotto – scrive Binaghi – di «un processo storico di costruzione di una tradizione comune da elementi diversi e contraddittori, la cui fusione necessita di continui assestamenti e trasformazioni» e «di cui la neutralità è progressivamente divenuta il collante». Normale dunque che chi la guidi cerchi di tenere acceso questo faro, impresa non semplice in un contesto geopolitico sempre più complesso dopo l’aggressione russa all’Ucraina, con l’adesione della Confederazione alle sanzioni contro Mosca che le ha precluso, in questi tre anni, il ruolo di mediatore davanti all’irritazione russa, e che oggi suggerisce un riposizionamento a fronte delle spiazzanti iniziative trumpiane.
L’appassionato libro di Binaghi non è il solo a rileggere, carte alla mano, la storia passata e recente del Paese di Guglielmo Tell (un mito, anche questo da passare al fact checking...) e le sue connessioni con il Vecchio Continente. È in libreria, infatti, nella traduzione di Andrea Tognina, il bel volume di André Holenstein, La Svizzera nel cuore dell’Europa, pubblicato da Giampiero Casagrande nella collana dell’Associazione ticinese degli insegnanti di storia. Un’opera dal ricco corredo iconografico e molti dati, che mette in discussione i racconti popolari sulla fondazione, il giuramento del Rütli e il patto federale del 1291, spostando avanti di oltre un secolo l’«anno zero» della Confederazione. Il volume analizza oltre sette secoli di storia attraverso il prisma della tensione tra apertura e ripiegamento nelle relazioni con l’Europa e con il mondo da parte dei Cantoni prima (ciascuno a lungo attento solo al proprio particulare) e, poi, della Dieta federale nel suo assetto in divenire. Una tensione costante e secolare, con una marcata matrice economica a spingere verso questa o quella scelta (scambi di materie prime o generosi contributi in cambio di soldati, ad esempio). Tutto ciò ha inciso in profondità nel passato del Paese, lungi dalla lettura teleologica nazionalista e mitizzata costruita a partire da fine Ottocento, e che, soprattutto, continua a determinarla: lo dimostrano le difficoltà di posizionamento dopo la fine della guerra fredda e oggi, tra globalizzazione e accordi bilaterali.