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 2025  marzo 02 Domenica calendario

Bielorussi liberi: un manifesto, anzi 30

«Un’ora, un mese, sei mesi, e fino a oggi, in un bus semivuoto, nei rari giorni di sole, sotto la pioggia a dirotto, continuo a vivere, in Bielorussia da remoto», scrive la poetessa bielorussa in esilio Hanna Komar nel componimento Darja, nome e storia di una persona reale, in fuga dopo le proteste del 2020, che attraverso la poesia diventa metafora di tutti coloro che sono scappati dall’ex Paese sovietico alleato della Russia di Putin.
Secondo il più recente rapporto del Pen Belarus, associazione liquidata dal regime di Aleksander Lukashenko nell’agosto 2020, «almeno 1.900 rappresentanti del mondo culturale sono stati vittime di persecuzioni e censura per motivi politici», evidenziando come «alcune repressioni sono ignote agli stessi difensori dei diritti umani e al pubblico».
Il desiderio di un Paese diverso, rivendicato dai manifestanti scesi nelle strade di Minsk dopo le elezioni truccate del 9 agosto 2020, ma anche il terrore per i propri cari, intrappolati nel regime del presidente: sono le due estremità emotive che vive ogni giorno Arthur Vakarov, tra i più riconosciuti designer bielorussi, ora in Polonia come rifugiato. Vakarov, grazie sostegno del Pen, ha realizzato il progetto Bielorussia: 30 anni di regime in 30 manifesti, che nell’ambito di un tour espositivo che ha già toccato Vilnius, Varsavia, Danzica, Stoccolma e Tallinn, fino al 9 marzo fa tappa in Italia, a Brescia, a Palazzo Martinengo Colleoni con un catalogo curato da Giulia De Florio di Memorial Italia.
Vakarov, com’è nata l’idea di rappresentare la storia del suo Paese attraverso trenta manifesti?«Alcuni mesi prima delle ultime elezioni farsa, il triste anniversario dei trent’anni di dittatura di Lukashenko mi ha dato ispirazione per la creazione di diverse immagini, che in seguito ho selezionato per produrre questi manifesti».
Che ruolo ha avuto nelle proteste?«Ho partecipato attivamente alle manifestazioni pacifiche del 2020, ideando tutti i poster per i cortei dei sabati, a cui spesso prendevo parte, ma allora non venni mai arrestato. È accaduto nel 2022, quando sono stato prelevato a casa dalle forze speciali di evacuazione bielorusse a seguito di un mandato di convocazione davanti al procuratore. Dovevo rispondere dell’accusa di attività estremista: ero l’ultimo rappresentante ancora in libertà di Hodna!, il principale progetto di cultura bielorussa che promuove musica, storia, identità, letteratura del nostro Paese. Gli altri fondatori erano già stati arrestati o avevano lasciato la Bielorussia».
Perciò decise anche lei di lasciare il Paese?«Dopo aver parlato con alcuni attivisti dell’opposizione, in meno di 24 ore ho svuotato il conto in banca e sono espatriato in Georgia. Qui ho ottenuto un visto per la Polonia, dove mi sono trasferito con tutti i familiari appena hanno potuto raggiungermi. Nel frattempo, il regime, in una retata con sette bus della polizia carichi di agenti in tenuta antisommossa, aveva confiscato il mio atelier e arrestato lo staff».
Era mai stato colpito dalla censura prima del 2020?«Da quando lavoro nel mondo del design, ho sempre affrontato nel settore privato molta censura. Il motivo? La paura legata alla mentalità sovietica in cui ancora viviamo. Per esempio: non potevo usare il rosso e il bianco in nessuna creazione astratta, perché richiamano la bandiera dell’indipendenza censurata da Lukashenko. Inoltre molti miei clienti non accettavano l’uso della lingua bielorussa nelle pubblicità: il regime non aveva nemmeno bisogno di vietarne l’uso, la paura della popolazione era più che sufficiente. Con complicate procedure, ogni campagna pubblicitaria doveva passare il controllo dei dipartimenti che vigilano sull’allineamento all’ideologia politica, i quali rigettano qualsiasi creatività genuina a favore di cliché primitivi. Tutta la macchina dittatoriale ha lo scopo di combattere ogni manifestazione di pensiero critico e di autocoscienza nazionale».
Nonostante questo, come ha gestito il suo lavoro?«Nell’ambito della cultura indipendente bielorussa, il mio studio di design era il più famoso del Paese: lavoravo per media indipendenti, band musicali, organizzazioni non governative, case editrici, teatri. Inoltre, avevo una mia personale linea di design: magliette, poster, agende, oggetti d’arredo, tutti molto popolari in Bielorussia. Nell’arco di una decina d’anni ho creato condizioni di vita meravigliose, avevo messo in piedi una residenza in un parco nazionale dove venivano ospitate installazioni artistiche, ero ricercato nel mondo del design culturale, ero responsabile di un grande spazio vintage in centro a Minsk, con tanti eventi pubblici e tanti amici, il tutto nella mia cultura bielorussa. Per questo non me ne sono andato fino all’ultimo».
Come descriverebbe il panorama culturale in Bielorussia?«Dal 2020, un deserto: la maggioranza degli artisti è in rosso, lavorare nel settore culturale bielorusso significa essere perlopiù volontari, molti hanno dovuto seppellire il proprio talento e per vivere fanno i tassisti o s’ingegnano nei cantieri edili. È molto triste vedere tante persone valorose che non possono coltivare le loro capacità».
Il suo rapporto con la cultura russa è cambiato dopo l’invasione dell’Ucraina?«Negli anni Novanta ero giovane e credevo nella democrazia russa, assorbivo con grande entusiasmo la musica rock, la letteratura, il cinema. Poi mi sono rivolto alla cultura indipendente bielorussa, come fruitore e come creatore. Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina ho smesso di interessarmi alla cultura russa, non perché la odi, ma è più forte di me. Ho iniziato a parlare solo in bielorusso, prima parlavo russo. Nel corso di questi trent’anni, il regime mi ha dato molte delusioni, ma la guerra all’Ucraina è quella che mi ha fatto più male. È un’azione del tutto ingiusta con cui questo batka (padre-padrone, ndr) malato ha reso me e tutti i bielorussi complici di un’aggressione. I miei amici mi hanno odiato... anche se ora i rapporti sono migliorati, sono sicuro che noi condivideremo le responsabilità per molti anni. Sono molto preoccupato dal fatto che Putin voglia usare la Bielorussia per perpetrare altri crimini contro l’umanità, con conseguenze terribili per il mio Paese».
Quale cambiamento possono portare i suoi manifesti?«Non possono cambiare la situazione del Paese, nessuno da solo può farlo. La maggioranza della popolazione è ancora sovietica e Lukashenko è un dittatore scaltro, appoggiato dalla Russia, ma che ha paura dei suoi cittadini. Per questo cerca di mantenere il modello sovietico. L’opposizione all’estero non ha influenza politica nel Paese, ma credo che lasciando le persone dotate di talento esprimere il meglio di sé nella cultura bielorussa, si potrà creare uno spazio di libertà che ci preparerà al futuro che vogliamo».