La Lettura, 2 marzo 2025
I dazi di Trump ributtano il mondo negli anni Trenta
La lezione di Carlo Cipolla, la capacità di studiare la storia con un approccio interdisciplinare e di spiegarla con semplicità, «non solo è ancora viva, ma dovremmo usarla di più per comprendere il nostro mondo». Comincia così la conversazione, online, con Thomas Sargent, 81 anni, professore di Economia e business all’Università di New York. Sargent ha studiato a Berkeley, in California, dal 1960 al 1964. «In quegli anni – racconta – Cipolla era un professore di Storia economica molto famoso e rispettato, ma non ho avuto occasione di seguire un suo corso». L’«occasione» arriva vent’anni dopo, nel 1985, quando Sargent e un altro economista, Robert Townsend, chiedono un colloquio a Cipolla per approfondire alcuni temi legati alle origini e alla diffusione della moneta. Lo storico pavese li riceve per due interi pomeriggi. Il testo, inedito, di quell’incontro viene ora proposto in Italia dalla casa editrice il Mulino, con il titolo: Viaggi e avventure della moneta. Nel 2011 Sargent ha ottenuto il premio Nobel, insieme con Christopher Sims, per «le ricerche empiriche su cause ed effetti nella macroeconomia».
Perché lei e Townsend a un certo punto della vostra carriera accademica vi siete rivolti a Cipolla?«Un mio buon amico, Daniel Fisher, un economista molto noto, mi parlò di Cipolla e dei suoi libri. Ce li ho ancora qui con me. Trattavano delle città-stato italiane nel XIV e XV secolo e descrivevano i problemi monetari che quelle realtà dovevano affrontare. Una delle cose più affascinanti era il modo con cui Cipolla metteva a fuoco i problemi senza cadere nella trappola del “presentismo”. Il presentismo è un errore che gli storici commettono spesso, interpretando il passato con concetti moderni, attribuendo alle persone del Cinquecento teorie e conoscenze che non potevano avere, per esempio la meccanica quantistica. Cipolla aveva un metodo elegante. Era un grande scrittore e insegnava a guardare alle questioni economiche calandosi nel passato. Era un modo di fare grande economia, anche senza utilizzare formule o modelli matematici complessi».
In questo libro intervista, Cipolla propone un parallelo tra la «monetizzazione» virtuale che prende piede nel Medioevo, cioè monete senza un contenuto intrinseco di oro o di argento, e la finanza dell’era moderna. Quei secoli, in cui si affermarono i banchieri di Firenze e Genova, furono segnati da crisi e bancarotte. Oggi siamo arrivati al Bitcoin. Stiamo rischiando un altro crack da «monetizzazione» sganciata da un valore reale?«Dobbiamo capirci sulle parole che usiamo. Che cosa intendiamo, quando parliamo di “valore reale”? Nella tradizione economica classica, il valore è soggettivo, non esiste un valore assoluto e universale. Nel Medioevo, la Chiesa cattolica discuteva su quale fosse il giusto prezzo di un bene. Alla fine, la conclusione fu: se due persone scambiano un bene di comune accordo, allora quello è il giusto prezzo. Mia moglie pensa che il valore di un quadro di Piero della Francesca sia inestimabile, ma suo fratello, invece, non gli attribuisce alcun pregio. Fin dal XIX secolo, i grandi teorici dell’economia come Léon Walras, William Stanley Jevons e Carl Menger hanno sostenuto che non possiamo parlare di un valore reale assoluto».
D’accordo, ma qual è il suo giudizio sui Bitcoin? Ci possiamo fidare?«Quando nacque il Bitcoin, dal punto di vista della teoria monetaria pura, non aveva alcun valore. In passato la moneta aveva valore perché era garantita da un bene fisico, come l’oro, l’argento e così via. Ma oggi il dollaro e l’euro non sono più garantiti da nulla. Eppure gli diamo valore perché crediamo che tutti gli altri continueranno a usarli. Possiamo dire la stessa cosa dei Bitcoin? Io penso di no, credo che sia un gigantesco schema Ponzi (investimenti basati sulla falsa promessa di facili guadagni futuri, ndr). Certo, se anni fa avessi investito 100 dollari in Bitcoin, oggi potrei starmene tutto il tempo in vacanza. Ma in ogni caso oggi il rischio è altissimo. È troppo tardi. Io direi: lasciate perdere».
Cipolla vi ha raccontato come l’Impero romano riuscì a imporre un sistema stabile, durato 150 anni. Si può fare un confronto con il modello costruito negli ultimi 80 anni dagli Stati Uniti? Oggi è un assetto in discussione: è ancora in grado di reggere?«Sì, possiamo fare un confronto tra lo scenario di oggi e la stabilità imposta dall’Impero romano. Ma non so quanto durerà il sistema attuale, che è stato costruito con grande fatica dopo la Seconda guerra mondiale. In quel momento i leader degli Stati Uniti e alcuni economisti mostrarono di aver compreso gli insegnamenti della Grande Depressione: politiche commerciali sbagliate, con l’applicazione di dazi e di tariffe doganali, avevano provocato il disastro economico globale. Decisero, allora, di puntare su un modello aperto, basato sul commercio internazionale. Naturalmente gli americani lo fecero perché pensavano che avrebbero potuto competere meglio di chiunque altro. Ma, in ogni caso, era un progetto destinato a durare 80-90-100 anni e forse più. Invece abbiamo visto prima l’amministrazione guidata da Joe Biden e ora quella di Donald Trump provare a smantellare questo assetto internazionale. Se avessero studiato con Cipolla, capirebbero che stanno facendo gli stessi errori degli anni Trenta, ma purtroppo i nostri leader non dimostrano alcuna conoscenza storica. Trump, lo ha detto chiaramente, vuole dazi doganali, protezionismo e la fine degli accordi commerciali globali. Se ci riuscirà, sarà la fine dell’ordine economico creato dagli Usa. Lo farà davvero? Io spero di no, ma bisogna prendere sul serio quello che dice».
Quando pensa a Trump, le viene in mente una figura storica o un periodo particolare evocato nelle vostre conversazioni con Cipolla?«Non risponderò direttamente a questa domanda. Ma le voglio dire che cosa ho letto nel libro di Edward Gibbon Storia del declino e della caduta dell’Impero romano. È un concetto ripreso nella nostra conversazione con Cipolla: i vertici che guidavano l’impero pensavano che sarebbe durato per molto, molto tempo. Poi all’improvviso anche gli imperi cadono».
L’Unione europea reggerà l’impatto delle politiche di Trump?«Sono un outsider, non europeo, quindi posso solo condividere una riflessione. Qualche tempo fa, credo nel 2012, partecipai a una conferenza di Gerhard Schröder. L’ex cancelliere tedesco (socialdemocratico, ndr) fece un discorso che trovai assai toccante. Disse che l’Unione europea non era un progetto economico, ma politico, nato per evitare un’altra guerra mondiale. Ricordò come la generazione che aveva voluto la Comunità europea aveva imparato le lezioni della storia, di come fosse necessario legare Francia e Germania e anche gli altri Paesi. Schröder disse anche che quella lezione, quella memoria si stavano dissolvendo. Oggi le nuove generazioni non sembrano avere la stessa consapevolezza storica che c’era nel dopoguerra. Ed è preoccupante».
Cipolla fa un altro paragone storico interessante. Descrive il secolare duello tra i Romani e i Parti, i persiani, gli iraniani di oggi. Due potenze che non riuscirono a prevalere l’una sull’altra. Le legioni romane erano imbattibili nella difesa delle città; la cavalleria dei Parti invincibile in campo aperto. Uno stallo che a Cipolla ricordava la sfida tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Oggi possiamo applicare quel modello alla competizione tra Usa e Cina?«Romani e Parti si combatterono a lungo. Ma la loro storia si è sviluppata su linee diverse. In Occidente c’è stata continuità anche dopo la caduta dell’impero. I barbari si sono romanizzati. Poi sono diventati cristiani e in Oriente l’impero bizantino è sopravvissuto fino al 1453. L’energia dei Parti si è andata esaurendo, tanto che a un certo punto hanno ceduto agli arabi, ai musulmani. Oggi Stati Uniti e Cina si trovano in una situazione differente. Le loro economie sono strettamente intrecciate. Ma ciascuno di questi Paesi ha davanti a sé sfide e opportunità diverse. La Cina ha il pieno controllo dei suoi confini, ma la popolazione sta invecchiando rapidamente, come succede in Giappone. Gli Usa, invece, non hanno un problema demografico, perché riceve un forte flusso di immigrati, di povera gente. L’America, però, deve affrontare una lunga lista di difficoltà: il deficit federale, gli effetti dei dazi imposti dai nostri governi. E ancora: la diffusione massiccia della droga. In altri termini lo sviluppo e la prosperità di Cina e Stati Uniti dipendono dalla loro capacità di risolvere questioni e dinamiche interne che non hanno nulla a che fare con la loro rivalità. Difficile, quindi, prevedere se e chi prevarrà».