La Lettura, 2 marzo 2025
Washington vince la sfida dei mari Ma Pechino avanza
«Non dobbiamo dimenticare le lezioni dell’ultimo grande conflitto mondiale sui mari tra il 1939 e 1945 e però fare estrema attenzione alle nuove tecnologie belliche, soprattutto i droni», dice Paul Kennedy. A 80 anni da compiere il prossimo 17 giugno, l’autore del classico Ascesa e declino delle grandi potenze torna nelle librerie italiane con uno studio fondamentale, Vittoria sui mari. Il potere navale e la trasformazione dell’ordine globale nella seconda guerra mondiale (Leg Edizioni). Ne parla con «la Lettura» anche tenendo conto degli ultimi sviluppi sugli scenari internazionali e dell’arrivo del «ciclone» Trump.
Professore, che cosa resta degli insegnamenti della Seconda guerra mondiale per le marine militari?«La sfida sui mari fu la più imponente della storia moderna e riguardò contemporaneamente tre scenari. Le battaglie per l’Atlantico, per il Mediterraneo e per il Pacifico insegnarono un gran numero di lezioni su tecnologie, strategia, politica delle alleanze. Vi partecipò la Gran Bretagna, che era una potenza in declino. Il Giappone inizialmente forte, ma poi rapidamente in ritirata. L’Unione Sovietica non ebbe alcun ruolo perché concentrata sulla guerra di terra. Ma occorre sottolineare che da allora, quando le accademie militari di tutto il mondo cercano di trarre lezioni per il futuro delle sfide marine, non possono che prendere atto dell’enorme potenza americana che, a parte le insufficienze iniziali, dopo il 1943 in effetti soverchiò quella di tutte le altre messe assieme e dominò le onde senza rivali».
Quanto durò la supremazia navale americana?«Dai primi anni Sessanta l’Unione Sovietica fu capace di mettere in acqua una flotta in grado di rappresentare una sfida sostanziale. Gli ammiragli statunitensi ne approfittarono per premere sul Congresso per ottenere fondi che permettessero di varare nuove portaerei e altre unità. Oggi la marina russa è molto meno forte, rappresenta un pericolo più contenuto. Però sta crescendo velocemente il potere della marina cinese nel Pacifico e nel sud-est asiatico. Dunque, è vero che restano lezioni importanti da studiare dall’ultimo conflitto mondiale, però adesso il fattore cinese apre scenari inediti. Anche se, va detto, per ora le unità cinesi sembrano ancora sulla difensiva».
Nel libro descrive molto bene il cambiamento dei rapporti di forza sui mari nel corso del conflitto. Nel 1939 il Regno Unito era la superpotenza di sempre, cinque anni dopo si ritrovò un nano rispetto agli Usa. E l’Italia, che inizialmente sembrava poter rivaleggiare con i britannici, poi, non solo per l’assenza del radar, si rivelò incapace di tenere il controllo persino del Mediterraneo. Crede che adesso la marina cinese possa in tempi relativamente brevi assumere assetti offensivi?«Non ancora. Credo che i cinesi stiano costruendo il loro potere navale in fasi pianificate con cautela e grande attenzione. Per ora restano nei pressi delle loro acque territoriali, le loro navi incrociano in genere entro 600 chilometri dalle coste cinesi. Però stanno costruendo un grande numero di sottomarini, tra loro alcuni molto efficienti e poco rumorosi, con motori diesel d’eccellenza. Li affiancano parecchie cacciatorpediniere e fregate armate con missili a lungo raggio. Hanno anche diverse navi pesanti, ma ancora non possono competere con le 11 gigantesche portaerei americane».
Le portaerei Usa restano dominanti?«Non ci sono dubbi. Però i cinesi stanno lentamente costruendo le loro portaerei, ne hanno già due moderne e altre due piccole più vecchie. Sappiamo che ne hanno in cantiere altre. Ma il tonnellaggio delle navi Usa resta complessivamente molto più alto, ecco perché i cinesi mantengono il basso profilo sulla loro espansione navale. Allo stesso tempo, l’ammiragliato Usa è diventato più cauto nel mandare le sue portaerei attraverso il Pacifico a ridosso delle coste cinesi».
Negli ultimi tre anni nel Mar Nero abbiamo visto la sconfitta dell’antica e prestigiosa flotta russa, o comunque la sua ritirata nei porti, a fronte dei droni marini e aerei sparati dagli ucraini. Come lo legge?«Ci sono due fattori che spiegano le carenze della marina di Mosca. Primo: la geografia, la Russia ha cattivi accessi al mare sia nel Mar Nero che nel Baltico, oltre a quelli vicino all’Artico e nell’est a Vladivostok. Sono quattro vie sacrificate. In secondo luogo, la flotta di superficie è poco professionale, non paragonabile agli standard delle marine militari occidentali. I criteri di arruolamento e gli addestramenti sono bassi, certo non paragonabili a quelli dei marinai americani o britannici. Sembra che abbiano però eccellenze nell’arma dei sottomarini. Il Cremlino ha investito parecchio, i loro marinai sono veri professionisti e frutto di selezioni serrate. È vero che ci sono stati incidenti gravi, ricordo per esempio quello del Kursk (2000, ndr). Adesso devono negoziare i porti con il nuovo regime siriano. Sappiamo che stanno sviluppando una nuova generazione di droni marini sulla base dell’esperienza maturata contro gli ucraini per cercare di avvicinarsi alla potenza della marina Usa. Ma, onestamente, per ora nessun esperto è impressionato dalla marina russa».
Lei scrive che dopo le atomiche di Hiroshima e Nagasaki tutti gli ammiragliati del mondo maturarono forti dubbi sull’opportunità di investire nella costruzione di flotte imponenti. Vale ancora?«Dopo il 1945 il dominio marino Usa rappresentò un grosso problema per gli altri Paesi. La guerra del Vietnam comunque contribuì a ridare legittimità alle diverse marine, le armi convenzionali restavano rilevanti anche nell’era atomica e i sovietici certo non si tirarono indietro. La fine della guerra fredda vide poi da parte americana molti meno investimenti per la marina: questo accadde in particolare con Bill Clinton. Ma già dieci anni dopo, la comparsa della flotta cinese obbligò a rivedere i conti e aumentare le spese».
La nuova sfida per rotte e giacimenti dell’Artico indotta dai cambiamenti climatici non spinge a rinforzare le flotte?«L’apertura dell’Artico rappresenta una nuovo capitolo che costringe a un grande ripensamento. Credo che per gli Stati Uniti il ritiro dei ghiacci e il nuovo accesso all’Artico rappresentino un danno strategico. Dal punto di vista della sicurezza militare, era molto meglio avere una regione completamente congelata e poco accessibile. Così, invece, si apre un nuovo potenziale fronte di guerra, che costringe a dividere le forze di difesa. La Russia in questo contesto potrebbe guadagnare alcuni vantaggi strategici e aprire altri porti. Le marine militari del mondo, comprese quella cinese e le europee, stanno studiando cosa fare».
Non crede che per l’Artico serviranno più navi e meglio equipaggiate?«Senza dubbio saranno necessarie unità per le estrazioni minerarie in mare e grandi capacità tecniche coadiuvate da ottime strumentazioni. Avranno un ruolo importante le grandi multinazionali e le società statali cinesi».
Lei scrive che le unità navali d’eccellenza della Seconda guerra mondiale furono i sottomarini e le portaerei. Possiamo dire che oggi le armi del futuro, anche in mare, sono i droni?«Probabilmente. Ma gli ammiragliati oggi sono preoccupati dalle nuove tecnologie e dall’Intelligenza artificiale. Sembra che unità costosissime e complesse come le portaerei rischino l’obsolescenza di fronte ai droni marini infinitamente meno costosi. Se così fosse, potremmo dire che il dominio delle portaerei è durato dal 1943 al 2025, poi è arrivata l’era dei droni e dei missili a lungo raggio sparati a pelo d’acqua che hanno mostrato la vulnerabilità di queste navi gigantesche, ma va ancora verificato».
Oggi Donald Trump sta mettendo in dubbio gli equilibri e le alleanze sorti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La Nato è in crisi. L’Europa si trova a doversi prendere carico della sua difesa: sarà in grado di allestire flotte rilevanti, costose anche da mantenere?«Dal punto di vista militare direi che per l’Europa la minaccia russa arriva dalla terra e non dal mare. La Russia non è in grado di mandare una flotta davvero minacciosa nell’Atlantico, ma le sue truppe di terra sono molto pericolose e l’Europa non credo sia pronta».
E Trump?«Impossibile fare predizioni con questo strano personaggio. Dice cose e compie azioni imprevedibili e contraddittorie. L’Europa non deve farsi prendere dal panico, è bene che mantenga il profilo basso, eviti lo scontro frontale con Trump in attesa che lui stesso compia errori tali da metterlo fuori gioco. Le follie che ha detto su Gaza, sull’Ucraina o sul Canada sono senza precedenti».