La Lettura, 2 marzo 2025
La Chiesa e la Shoah Perché Pio XII tacque
Non fu certo «il Papa di Hitler», ma nemmeno il «Papa degli ebrei». Più si analizzano le carte relative al pontificato di Pio XII, disponibili alla consultazione dal marzo 2020, e più ci si accorge delle tante sfaccettature che presenta il suo atteggiamento durante la Seconda guerra mondiale: «Non esiste una ragione sola per il silenzio di Papa Eugenio Pacelli sullo sterminio degli ebrei, ma vengono ad aggrovigliarsi questioni antiche e nuove che lo inducono a scegliere la prudenza e poi a non tornare esplicitamente sull’argomento nemmeno al termine del conflitto». A parlare così è Giovanni Coco, studioso che lavora all’Archivio Apostolico Vaticano e anticipa a «la Lettura» i contenuti del suo nuovo libro, Un mosaico di silenzi, in uscita martedì 4 marzo per Mondadori.
L’eredità di Pio XI
Un primo punto riguarda la presunta attenuazione, da parte di Pio XII (di cui ricorrono oggi, 2 marzo, gli anniversari della nascita, 1876, e dell’elezione, 1939), della condanna espressa dal suo predecessore Achille Ratti, Pio XI, verso il nazismo. «Tra i due pontefici – sostiene Coco – c’è una sostanziale continuità pur con differenze di natura caratteriale. Tanto agli occhi di Papa Ratti che del cardinale Pacelli, allora suo segretario di Stato, la ripulsa della statolatria e del razzismo era già insita nell’enciclica Mit brennender Sorge (Con viva preoccupazione) del 1937, che invero contiene una forte critica al Terzo Reich e al pensiero nazista, ma non era ancora un’esplicita condanna dell’antisemitismo. L’anno dopo, di fronte all’approvazione delle leggi razziali del fascismo, Papa Ratti reagisce con una dura esternazione contro l’antisemitismo, ma al tempo stesso, per timore di ripercussioni sull’Azione cattolica, circoscrive il suo intervento alla tutela degli ebrei battezzati, le persone su cui la Chiesa ha una diretta giurisdizione. Su questo insisterà anche il suo successore, cercando in ogni modo di strappare a Mussolini concessioni verso i “cattolici non ariani”. Pio XI è più battagliero, Pio XII usa una cautela tipicamente diplomatica, ma nel contenuto le due linee coincidono».
La condanna nel cassetto
Si dice tuttavia che Pacelli abbia messo da parte un’enciclica contro il razzismo che Ratti aveva in animo di emanare. «Pio XI – precisa Coco – vede salire la marea montante del nazismo e si pone il problema di andare oltre la Mit brennender Sorge. Quindi incarica prima il domenicano Mariano Cordovani e poi due gesuiti, John LaFarge e Gustav Gundlach, di preparare un testo di condanna del razzismo. Quando però gli arriva lo studio dei due padri, il Papa non si mostra convinto, tant’è vero che lo lascia a dormire in un cassetto. Inoltre, poco prima di morire, Pio XI incarica il Sant’Uffizio di riprendere in mano lo studio di un documento contro il totalitarismo (e in parte anche contro il razzismo) preparato nel 1936, come ho già scritto nel 2023 per i “Quaderni di Storia” di Luciano Canfora. Insomma, lo stesso Papa cercava strade diverse perché non era soddisfatto dallo studio redatto da LaFarge e Gundlach, che fu definitivamente scartato dopo la sua scomparsa, il 10 febbraio 1939».
L’ossessione dell’imparzialità
Quando scoppia la guerra, pochi mesi dopo l’elezione di Pio XII, «la grande preoccupazione del Papa è salvaguardare la neutralità della Santa Sede rispetto ai contendenti. Perciò per lungo tempo esita anche a intervenire in favore di una nazione fedele alla Chiesa e oppressa ferocemente dai nazisti come la Polonia, nonostante le pressanti richieste che gli arrivano da quella parte.
Ovviamente la reticenza è ben maggiore nei riguardi degli ebrei, sia perché il Vaticano ha difficoltà a pensare di estendere la propria tutela fuori del mondo cattolico o quanto meno cristiano, sia perché pesa l’antico antigiudaismo religioso della Chiesa, diverso dall’antisemitismo razziale, ma tuttavia foriero in passato di gravi accuse verso il popolo d’Israele e di misure gravemente restrittive come l’istituzione dei ghetti».
Pregiudizi radicati
Dopo l’emancipazione degli ebrei la diffidenza della gerarchia ecclesiastica non era certo diminuita: «Se da una parte la Chiesa continua a vederli come persone da convertire, in quanto primi destinatari della rivelazione divina, al tempo stesso li guarda come potenziali nemici, che tendono ad allearsi con i massoni e i rivoluzionari per combattere la fede. Prendere la parola per difenderli appare assai problematico, tanto più che nella Curia romana operano personalità come monsignor Angelo Dell’Acqua, considerato per giunta un esperto della questione ebraica, che nei suoi appunti per il Papa si mostra animato da pregiudizi antisemiti, per cui tende a dubitare delle notizie riguardanti la “soluzione finale” nazista e a volte non si risparmia spiacevoli allusioni al presunto vittimismo dei perseguitati».
La parola «ebrei»
Tuttavia a partire dal 1942 le informazioni che giungono in Vaticano circa la Shoah si fanno sempre più precise e circostanziate: «In quella fase – ricorda Coco – Pio XII viene meno in parte alla consegna del silenzio sul genocidio in atto. Nel radiomessaggio natalizio del 1942 parla di persone “destinate alla morte” per ragioni “di nazionalità o di stirpe”. Poi il 2 giugno 1943 rivolge la propria sollecitudine a coloro che, sempre per i medesimi motivi, sono sottoposti a “costrizioni sterminatrici”: un’espressione forte per il suo lessico sempre felpato».Però Pio XII non cita mai esplicitamente gli ebrei come vittime dei crimini nazisti: «Si muove in una logica di cautela diplomatica e non vuole sollevare una polemica diretta con il Terzo Reich, perché conosce l’intransigenza di Berlino sul tema razziale. Egli teme che uno scontro aperto sarebbe controproducente per le stesse vittime e, soprattutto, avrebbe un impatto devastante sui cattolici tedeschi. Quando il principe tedesco Filippo d’Assia, nel 1939, aveva cercato di promuovere una distensione nei rapporti tra Santa Sede e Terzo Reich, aveva detto al Papa che per Adolf Hitler era meglio evitare di toccare la questione razziale. E Pio XII non aveva sollevato obiezioni».
Nazisti alle porte
D’altronde nel settembre 1943, con l’armistizio sottoscritto dal governo Badoglio, interviene un fatto nuovo di estrema importanza, l’occupazione tedesca dell’Italia centro-settentrionale: «Il Papa si trova ad essere il fragile garante di Roma “città aperta” di fronte ai nazisti. Per Pio XII è un motivo di forte apprensione, anche perché circola la voce, forse messa in giro appositamente, che Hitler intenda fare prigioniero il Papa e trascinarlo via da Roma. Il Pontefice ne parla apertamente in un colloquio con l’ambasciatore del Terzo Reich presso la Santa Sede, Ernst von Weizsäcker, e gli manifesta la sua intenzione di non cedere: “Io resto qui”. Il diplomatico smentisce ogni intenzione ostile, ma il timore non viene meno».Anche per questo Pio XII non protesta pubblicamente quando il 16 ottobre 1943 c’è la razzia nel ghetto di Roma, con la cattura di circa mille ebrei destinati ad Auschwitz: «Papa Pacelli interviene riservatamente, riesce ad ottenere che qualcuno tra i rastrellati venga liberato. Manda il cardinale segretario di Stato vaticano, Luigi Maglione, a chiedere spiegazioni a von Weizsäcker. Il cardinale prospetta anche l’eventualità di una pubblica disapprovazione papale dell’accaduto. Ma l’ambasciatore risponde in modo molto fermo e la Santa Sede preferisce tacere». Tale è la prudenza di Pio XII in quella fase da indurlo a non reagire anche dinanzi alle calunnie che circolano sul suo conto: «Quando si diffonde la falsa voce secondo cui il Papa avrebbe approvato la razzia nel ghetto di Roma, viene preparata una nota di protesta da inviare al comando tedesco, ma poi si preferisce rinunciare».
I rifugiati nei conventi
Durante l’occupazione nazista, numerosi ricercati vengono nascosti nelle case religiose della capitale, tant’è vero che si è parlato di un ordine scritto di accogliere gli ebrei da parte di Pio XII. Un’ipotesi che, secondo Coco, non ha fondamento: «Un fine diplomatico come Pacelli non avrebbe mai messo nero su bianco una direttiva così compromettente, che i tedeschi avrebbero potuto intercettare. Ci fu forse qualche istruzione orale, ma non necessariamente correlata alla questione ebraica».L’ospitalità fornita da conventi e monasteri fu un fenomeno spontaneo: «Antifascisti, ex fascisti, ebrei vennero accolti per sottrarli ai pericoli cui erano esposti per via dell’occupazione nazista. Ma c’era il problema della clausura, un termine che nel diritto canonico non designa soltanto, come nel linguaggio comune, una vita religiosa di reclusione in cui non si ha contatto con il mondo esterno, ma anche determinati spazi, all’interno di un convento, nei quali non possono accedere gli estranei. Per offrire ospitalità ai perseguitati occorreva necessariamente superare questi vincoli e per farlo, soprattutto negli istituti di diritto pontificio, era necessaria l’autorizzazione della Santa Sede. Il fatto che tale disponibilità sia stata largamente concessa, senza alcun dubbio in forma orale, può aver fatto nascere la sensazione che ci fosse stato un ordine papale in quel senso. In alcuni casi comunque sappiamo che Pio XII intervenne anche con un contributo economico per aiutare le case religiose a sostenere le spese derivanti dal fatto di ospitare i ricercati».
La reticenza continua
Dopo la liberazione di Roma, nel giugno del 1944, Pacelli è più libero di parlare. «Ma continua a non farsi sentire sullo sterminio ancora in corso, preferisce lasciare l’iniziativa agli episcopati locali. A un certo punto il Papa progetta di mandare un messaggio aperto al cardinale Jusztinián Serédi per chiedergli di intervenire in favore degli ebrei ungheresi, che i nazisti stavano deportando per sterminarli. Ma poi giunge un telegramma in codice da cui risulta che Serédi si è già attivato e Pio XII gli invia una generica approvazione. Peccato che il messaggio proveniente da Budapest fosse stato decifrato male e in realtà non contenesse alcun riferimento agli ebrei».Ma perché Papa Pacelli tace anche dopo il termine della guerra? «Dipende soprattutto da due fattori. In primo luogo la Santa Sede non vuole dare l’impressione di infierire sugli sconfitti, anche per salvaguardare i suoi rapporti con il mondo germanico. Pio XII rivendica il martirio subito da molti cattolici e sacerdoti sotto il Terzo Reich, ma non va oltre. In quella fase la Chiesa tedesca si fa interprete delle sofferenze del suo popolo e invoca aiuto dal Papa, che inaugura una campagna di clemenza. C’è una vasta documentazione in proposito, con casi clamorosi: per esempio il sacerdote bavarese Johannes Baptist Neuhäusler, un fervente antinazista che era stato rinchiuso nel Lager di Dachau, chiede pietà per i suoi stessi aguzzini. Appelli a cui il Vaticano non poteva restare insensibile. Poi c’è l’immigrazione ebraica in Palestina, che porta alla nascita dello Stato d’Israele: la Chiesa non vede di buon occhio il sionismo, che altera la situazione demografica in Terra Santa a ulteriore detrimento dei cristiani di lingua araba, che erano già una minoranza in un Paese islamico. E la Santa Sede teme che una sua dichiarazione forte sulla Shoah sia utilizzata per sostenere la creazione di uno Stato ebraico. Non dimentichiamo che soltanto sotto il pontificato di Giovanni Paolo II il Vaticano ha inaugurato ufficiali rapporti diplomatici con Israele».
Un conflitto interiore
In conclusione Coco invita a comprendere il profondo travaglio di Pio XII: «Credo che a Pacelli abbia nociuto la sua maschera d’impassibilità, funzionale a veicolare l’immagine forte e sacrale del Pastor angelicus, da contrapporre alla figura vincente di Iosif Stalin e all’utopia del socialismo reale. Ma quell’atteggiamento apparentemente distaccato è stato scambiato per indifferenza e mancanza di empatia. In realtà il Pontefice è un uomo combattuto, sofferente, attento ai racconti dei sopravvissuti. È ostile all’antisemitismo, lo condanna apertamente anche in un’udienza con una delegazione araba palestinese, ma deve confrontarsi con la persistenza del pregiudizio antiebraico all’interno della Chiesa. Sente la necessità di aprire un capitolo nuovo nei rapporti con il mondo ebraico, ma non vuole precorrere i tempi. Commissiona uno studio circa l’opportunità di togliere dalla liturgia del Venerdì Santo l’espressione Pro perfidis Iudaeis ed è personalmente favorevole a questa svolta, ma poi di fronte a pareri discordi preferisce non forzare. Insomma, sceglie di avviare un dibattito e attenderne gli esiti piuttosto che anticiparne le conclusioni. Pio XII è come sospeso in una terra di nessuno tra il passato e il futuro. Qui risiede il suo dramma».