La Lettura, 2 marzo 2025
E sul palco le voci ribelli
Una data particolare quella di fine maggio 1985: andiamo a Milano in cerca di insulti. Abbiamo un doppio invito per la giornata, il pomeriggio al festival «Milano poesia», la sera al centro sociale Leoncavallo: sono due poli opposti, ma i Cccp – vuoi per la scoperta novità di quel nostro nome, vuoi per una potenziale attività di portavoce – sembrano interessanti per entrambe le situazioni. Da parte nostra, una motivata diffidenza provinciale nei confronti delle metropoli ci spinge a crearci dei nemici anche in quei luoghi a cui dovremmo teoricamente aspirare. Per la cultura e l’intelligenza da parte di «Milano poesia» – allora ci sembravano dati trascurabili, quasi inevitabili – per la presunzione di essere l’aristocrazia della rivolta da parte del Leoncavallo.
La provincia da cui proveniamo insegna ad avere aspirazioni differenti da quelle urbane; e la zona di margine in cui ci troviamo a vivere è sfiorata appena nei suoi interessi quotidiani dall’avanzata del cosiddetto nuovo nuovo e di quel postmoderno che paiono imperare nell’orizzonte mentale dei cittadini. La grande bolla di sapone che ha coinvolto l’intera Italia si gonfia sempre più, e luminoso sembra il nuovo corso inaugurato dall’estinzione delle ideologie, stando a quanto viene sbandierato sulle pagine patinate e sugli schermi delle nuove televisioni. Un entusiasmo di star bene che ci trova estranei, scontrosi, indifferenti. Troppi caduti attorno a noi, per Aids, per eroina, per sonnolenza, per consunzione, nulla da condividere con le speranze di ricchezza del Paese.
Arriviamo alla Rotonda della Besana dove è ospite il festival con un proclama in tasca che leggeremo al posto del previsto incontro musicale. Agiamo in base a un pregiudizio, quindi, e la presenza di nomi importanti nel programma – Fabrizio De Andrè, Matia Bazar, Linton Kwesi Johnson, Iosif Brodskij, Ignazio Buttitta – non basta a rasserenarci. Dal palco buttiamo fuori la nostra agitazione e lo sfoggio di una voluta alterità fastidiosa per i presenti. Ricordo una frase urlata da un anonimo ascoltatore: «È comodo partecipare e protestare!».
Già il titolo del volantino che distribuiamo è irritante: Quanto vale una parola nel fast-food della cultura?. E il sottotitolo peggiora le cose: La parola ovvero l’istinto di conversazione. L’irritazione cresce con la lettura pubblica: «Da sempre, la parola è esclusione, «Milano poesia» ne è ulteriore conferma, avvallando più o meno consapevolmente il tentativo di mantenere una barriera tra Cultura e ciò che Cultura non è. Questa è la fiera delle vanità. Come in un gioco di bambini, chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Si dà spazio a chi ha già spazio, parola a chi ha già parola». Ci prendiamo il tempo di offendere il sociologo di turno, Omar Calabrese, che aveva recensito il nostro lavoro giudicandolo come «un settantasette postmoderno». Arrivano fischi, rumori, uno soltanto – ci giurerei —– si diverte: Gianni Sassi, che sta ottenendo quello che gli piace. Una poesia di scontro.
Musica differente al Leoncavallo e atmosfera rissosa, anche internamente. La parte sana del Centro occupato – quella delle mamme, delle famiglie, degli anziani e di non pochi ragazzi e ragazze – ci accoglie con calore e benevolenza. Conoscono le nostre canzoni, in qualche modo le hanno fatte proprie, allo stesso modo sono contenti di come è andata poche ore prima a «Milano poesia». La parte più velleitaria e barricadera ha invece caricato le armi sotto forma di casse di ortaggi di stagione stipate a bordo palco. Anche questo è poesia, e il fitto lancio di verdure che punteggia il nostro concerto ha la metrica di una prosodia bop, non troppo regolare, sincopata, in dipendenza del ritmo delle canzoni e del pogo sfrenato che ne consegue. Suoniamo schivando melanzane, pomodori, peperoni, valutando nel contempo l’abbondanza del raccolto che ci spetta di diritto. Quello che per i rivoltosi è un oltraggio, per noi è un dono del cielo. I lanci si intrecciano alle varie Live in Pankow, Spara Jurij, Punk Islam, l’atmosfera è tumultuosa e si riempie di slogan, da una parte all’altra dei due fronti. Quella è ancora l’epoca in cui ci difendiamo dal pubblico con una cortina di filo spinato a protezione e ammonimento. Amore non fa rima con cuore.
Siamo richiamati a «Milano poesia» una manciata di anni dopo – potrebbe essere l’autunno del 1991 e lo spazio potrebbe essere stato l’Ansaldo – direttamente da Gianni Sassi che ci convoca nel suo ufficio alla Cooperativa Nuova Intrapresa.
Si mostra ancora divertito dalle nostre antiche proteste, e interessato a una nuova etichetta discografica che abbiamo da poco inaugurato: I Dischi del Mulo. Soprattutto, apprezza la rivelazione che il mulo in questione non sia una velleità simbolica, ma un mulo in carne e ossa, Il Biondo, custodito nella stalla a Cerreto Alpi. Ventila una possibile collaborazione discografica; da parte nostra, conosciamo perfettamente tutto il catalogo della Cramps Records di Sassi & C., da quella grafica che lo caratterizza immediatamente alle esperienze musicali, tutte oltre misura e oltre consuetudine, dagli Area International Group a Juan Hidalgo, John Cage, Derek Bailey, quanti altri. Abbiamo come l’impressione che voglia metterci alla prova, in vista di una sua idea che non potremo conoscere mai, a causa della sua inaspettata scomparsa. Ci propone invece di considerare la composizione di musiche o suoni immersi nell’acqua di una grande vasca di vetro, come fossimo pesci in un acquario. Non sembri bizzarra questa idea, invece perfettamente conforme alla placida follia del proponente e alla sua idea di una poesia che non fosse fatta di rime baciate o altri impicci a verso sciolto.
Ci lasciamo con l’impegno di pensarci su, e gli diamo il titolo di quello che sarebbe stato il nostro intervento performativo a «Milano poesia»: Animali da reddito. Comincia così: «Cantano e ridono in coro/ animali da reddito».