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 2025  marzo 02 Domenica calendario

La musica prende la parola. Così la letteratura si fa pop

Erano passati solo due mesi da quando Domenico Modugno aveva cantato al Festival di Sanremo la sua Nel blu, dipinto di blu — sua per la musica, il testo era di Franco Migliacci – compiendo «una piccola rivoluzione francese nel mondo tradizionale e conformista della canzone» (così, all’epoca, il settimanale «Epoca»). Ma quel 3 maggio del 1958, il Cantacronache sperimentale tentava a Torino un’operazione più ambiziosa: portare nella canzone le parole – e i temi, lo stile, la scrittura, dapprincipio persino la voce – di grandi scrittori come Italo Calvino. Proprio di Calvino erano i testi – le musiche erano di Sergio Liberovici – di due delle canzoni eseguite quella sera a Palazzo Carignano; le due più apprezzate dal pubblico in sala: Dove vola l’avvoltoio? e Canzone triste. In quel pubblico c’erano anche intellettuali come Franco Antonicelli, Giulio Einaudi, Franco Fortini e la nota attrice «Elsa De Giorgi, inguainata in un telo di lino rosa ed ombreggiata» (così la descrive la «Gazzetta del popolo») «da un ampio cappello di paglia di Firenze».
Quella serata torinese è rievocata da Giulio Carlo Pantalei nel suo recente Una lingua per cantare. Gli scrittori italiani e la musica leggera come inizio di un movimento che, passando poi da Torino a Roma (grazie soprattutto a Pier Paolo Pasolini e Laura Betti), innescò un progressivo avvicinamento tra letteratura e canzone. Un processo destinato a compiersi solo una ventina d’anni dopo, a Bologna, con i tre dischi scritti da Lucio Dalla su testi Roberto Roversi: Il giorno aveva cinque teste (1973), Anidride solforosa (1975), Automobili (1976). Con appassionata cura e filologica acribia, Pantalei ricostruisce un particolareggiato affresco storico nel quale i testi delle canzoni scritte da Calvino, Fortini, Pasolini – e da Alberto Moravia, Goffredo Parise, Ennio Flaiano, Alberto Arbasino – sono messi in relazione con il clima sociale, politico, culturale di quegli anni. E attentamente analizzati nei loro aspetti letterari, come il rapporto con racconti o poesie degli stessi autori, ma anche musicali: soffermandosi sapientemente sulle partiture scritte di volta in volta da Liberovici o da Fiorenzo Carpi, Piero Piccioni, Giovanni Fusco (Pantalei, oltre che studioso di storia della letteratura e della canzone, è a sua volta cantautore). Tutto questo con l’obiettivo, dichiarato dalla prima pagina, di ricostruire il periodo in cui «alcuni dei nostri massimi autori del Novecento hanno realizzato versi d’autore per musica contribuendo in maniera decisiva alla nascita del cantautorato in Italia».
Quella sera – dunque – a Torino c’era anche Elsa De Giorgi, che in quegli anni intratteneva con Calvino una relazione sentimentale. Nel libro in cui rievoca la loro storia d’amore (Ho visto partire il tuo treno) si legge a un certo punto questo passaggio: «Aveva appena scritto due canzoni per un suo amico che con un gruppo di giovani musicisti preparava una specie di festival di canzoni anticonformistiche. Ma non gli erano venute bene, e si lamentava perché gli era venuto da imitare le canzonette deteriori o i cori dei soldati. Trovandosi a contatto con un genere lungamente contaminato dalla volgarità si sentiva tentato di mimetizzarsi alla volgarità. Cioè, invece di essere lui a introdurre un raggio di raffinatezza letteraria, era indotto a parodiare quanto c’era di più facile e convenzionale per la canzonetta». Forse erano solo dubbi dell’ora prima, visto che quelle canzoni conobbero poi un certo successo presso il pubblico a cui si rivolgevano. Dubbi significativi, però: innanzi tutto del disagio provato nel valicare un confine all’epoca molto netto. E quindi della difficoltà nel trovare una strada cólta, alta, impegnata, letteraria alla canzonetta. Non è forse un caso se della stagione raccontata così bene da Pantalei resta ben poca memoria sia nelle storie letterarie, sia – ciò che è più rilevante – nel canone collettivo del patrimonio pop. Quello per cui «una nazione è fatta dai ritornelli che sceglie di canticchiare all’infinito», come ha osservato Tiziano Scarpa.
Gli elementi di continuità sottolineati da Pantalei si basano prevalentemente su filiere di rapporti personali: quella che da Pasolini passa per Giovanna Marini e arriva a Francesco De Gregori, ad esempio, o quella che va dagli stessi Pasolini e Fortini a Roversi e dunque a Dalla. In minor parte su echi testuali, solo di rado accompagnati – peraltro – da espliciti riconoscimenti (come questo di De Gregori: «Le “fanciulle dalle guance di pesca” le ho rubate a una vecchia canzone di Italo Calvino e Liberovici che si chiamava, credo, Oltre il ponte»). Molto evidenti risultano, per contro, gli elementi di discontinuità. Il primo è proprio quello temporale. L’esperienza Dalla-Roversi, l’unica decantata in una parte (alta) di quel canone, si situa – come sottolinea lo stesso Pantalei – a notevole distanza dalle fasi torinese e romana. Quando ormai, per intendersi, nella hit parade italiana erano già apparsi cantautori come Gino Paoli, Luigi Tenco, Fabrizio De André e ne stavano passando altri come appunto De Gregori, Francesco Guccini, Antonello Venditti o Claudio Baglioni. «Chi canta Prévert, chi copia Baglioni», dice Rino Gaetano nella sua Ma il cielo è sempre più blu (1975). E in effetti, a differenza di quanto è accaduto in Francia, dove – proprio a partire dalla poesia Jacques Prévert – è nata presto una canzone definita populittéraire («popoletteraria»), in Italia la canzone d’autore nasce prevalentemente per via endogena. Assorbendo stimoli letterari o più in generale della cultura alta, ma nutrendosi soprattutto di altre canzoni e quindi rielaborandoli radicalmente in un codice altro: dalla letteratura alta alla letteratura altra. Così la pensava, nel 1978, lo stesso Guccini, che – contraddicendo «i critici snob intellettual-liceal-universitari» – riconosceva in De Gregori non un linguaggio ermetico o montaliano, ma «dylaniano». (Sarà solo attraverso varie mediazioni – per dire – che giungeranno fin nei testi di Baglioni costrutti tipici della poesia prima simbolista e poi ermetica, come quelli che Pier Vincenzo Mengaldo chiama «cortocircuiti analogici di tipo sintetico tramite di»: mattini freschi di biciclette, natali di agrifogli e candeline rosse, amori di vernice sui muri).
Come notava Giorgio Caproni, già giudice al Festival di Sanremo del 1955, la vera musica delle poesie sta nelle parole («Io ero portato a cercare il canto nelle parole»): prima e indipendentemente dalla musica a cui possono accompagnarsi. Di qui la forza della poesia recitata a voce alta: orale, corporea, performativa (come spiega Mariangela Gualtieri nel suo L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia). I testi di canzone, invece, sono uno strano caso di poesia pop-orale: anche messi su carta, si portano dietro la musica per cui sono nati, la loro peculiare vocalità. Si portano dietro, come un codice genetico, la loro natura pop – cioè facile, diretta, leggera – di parole che restano così, nel cuore della gente. La canzone d’autore, nel senso di cantata da chi ne scrive testi e musica, rappresenta da questo punto di vista – o meglio, d’ascolto – la sintesi che sussume i vertici dell’ideale triangolo parole-musica-voce (su cui insiste Umberto Fiori nel suo Scrivere con la voce). È la voce dell’autore che crea questa particolare forma di memorabile armonia. Qui sta anche la differenza tra una parola come Cantacronache, in cui a saldarsi sono l’azione e l’oggetto, e una come cantautore: tutta centrata sulle due definizioni del soggetto, cantante e autore. È da qui che, all’inizio degli anni Sessanta, comincia in Italia una profonda trasformazione del genere canzone. E, con questa, un progressivo capovolgimento del tradizionale rapporto di forze tra letteratura e canzone. Non solo in Italia, ovviamente. Basta pensare appunto a Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura nel 2016, per aver creato – come recita la motivazione – «una nuova poetica espressiva all’interno della grande tradizione canora americana».