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 2025  marzo 02 Domenica calendario

Nuova vita oltre la carta: i versi camminano nell’arte

Ci sono scultori il cui gesto è la figurazione plastica di una poesia, come Anish Kapoor. Ci sono artisti che trovano nella poesia una fonte di ispirazione, come Massimo Bartolini. Ci sono pittori poeti, come Toti Scialoja o Filippo de Pisis. E ci sono artisti che lungo tutto il loro percorso non hanno mai smesso di interrogare un poeta, sempre lo stesso, come nel caso di Anselm Kiefer con Paul Celan.
Di che cosa parlano, così vicini e così lontani, Kiefer e Celan? Del male, ovviamente, e della colpa, questioni scottanti per tutti noi eppure incomprensibili. Paul Celan è il poeta incomprensibile per eccellenza. I suoi versi sembrano forgiati nel mistero alchemico della materia delle origini e, non a caso, Kiefer li usa come titoli, ma anche incidendoli nella congerie di elementi che compongono le sue tele, quasi a evocare con quel misto di parole e sostanze il caos della distruzione. Qual è la ragione del male? Com’è potuto accadere che esseri umani in tutto simili a noi abbiano cancellato i nomi di altri esseri umani tatuando sulle loro braccia codici numerici? Com’è potuto accadere che li abbiano sfruttati nei campi di lavoro e poi bruciati nei forni? Sei milioni di esseri umani eliminati da un esercito di ragionieri ubbidienti. In che misura anche noi, fortunati posteri, siamo coinvolti nella Shoah e nella mostruosità del nazismo? Sono interrogativi che assillano in diverso modo il pittore e il poeta.Celan viene dalla Bucovina (oggi Ucraina), romeno di lingua tedesca e famiglia ebraica, riesce a sfuggire alla deportazione ma perderà i genitori in campo di concentramento. Per tutta la vita, anche dopo essersi stabilito a Parigi, scriverà nella lingua dei carnefici. In una lettera confessa: «È difficile per un ebreo scrivere poesie in tedesco: la mano che aprirà il mio libro potrebbe avere stretto la mano di colui che ha ucciso mia madre». Sarà la colpa che lo porterà in pellegrinaggio da Martin Heidegger nella speranza che il filosofo ex nazista sappia dargli sollievo, ed è probabile che dalla delusione di questo incontro si farà strada nella sua mente l’idea del suicidio, compiuto gettandosi nella Senna nel 1970. La parola poetica per Heidegger è il nostro modo di abitare il mondo, mette in luce la nostra attitudine costruttiva: poesia viene da poiein, fare, formare. Per Celan la parola poetica è, suo malgrado, la traccia indelebile di una compromissione universale. Non a caso la sua poesia più famosa, Todesfuge (Fuga di morte) è recitata per intero in Anselm, l’ispirato documentario di Win Wenders dedicato a Kiefer.
L’artista tedesco non ha mai saputo allontanarsi da questo tema. Sin dagli esordi il nazismo è al centro del suo lavoro, al punto che la critica lo ha accusato per lungo tempo di una vera ossessione per l’iconografia del Terzo Reich, sospettandolo di fatto di sentimenti nostalgici. In realtà Kiefer non si dà scampo. Nato nel 1945, è a tutti gli effetti innocente, ma in quanto tedesco, in quanto uomo, è essenzialmente colpevole. Il dialogo con la poesia auratica di Celan lo aiuta a immergersi, a sprofondare. In Kiefer anche i cieli sono fatti di terra. Nel suo studio a Barjac, una specie di bastione raccontato mirabilmente nel saggio di Vincenzo Trione Prologo celeste, Kiefer ha realizzato un sistema di argani e imbracature che gli permette di dipingere sospeso sulle tele come una specie di deus ex machina. Pitture lavorate in orizzontale, arate, sorvolate. Tecniche miste – olio, emulsione, xilografia, gommalacca, acrilico – che contribuiscono a stratificare la furia sismica dell’opera, così come si deposita il dolore nel tempo. Fotografie ustionate dagli acidi, seppellite nella sabbia, avvolte nel piombo, impastate a cocci di vetro, canapa, semi di girasole, capelli, deiezioni umane: ed ecco il cielo stellato dell’olocausto. Lassù i morti luccicano, luccicano le loro braccia tatuate. È impossibile distogliere l’attenzione dagli orrori del nazismo, l’incubo non smette, quelle stelle in cielo sono codici numerici di gente morta. Sto pensando a Sternenfall (Stelle cadenti) opera che si può ammirare al Maxxi di Roma, che andrebbe guardata ripetendo la nenia celaniana: «Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera/ noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte/ noi beviamo e beviamo/ noi scaviamo una tomba nell’aria»...
Ma sto pensando anche alla mostra al Grand Palais a Parigi di qualche anno fa, intitolata Pour Paul Celan, nella cui scheda introduttiva Kiefer dichiarava: «A scuola studiavamo poesie come Todesfuge. Già all’epoca per me Celan era il più grande poeta del Ventesimo secolo. Tempo dopo ho affrontato le poesie più tarde ed ermetiche. Non potendo coglierne la totalità, cominciai a impararle a memoria. Celan non si accontenta di contemplare il nulla, lo ha vissuto e attraversato. Io sono solo un testimone di ciò che resta». Ed eccolo, ciò che resta: gigantesche tele verticali su cui i versi di Celan, scritti nel corsivo nervoso del pittore, si stagliano bianchissimi come ossa asciugate al sole contro il grigio antracite dello sfondo. Pressati sulla parte bassa di queste superfici di piombo, tanti fiori di papavero essiccati, simbolo di oblio, come già nella famosa raccolta celaniana Mohn und Gedächtnis (Papavero e memoria). Kiefer trova nei versi di Celan ciò che cerca in pittura: una bellezza che faccia male, una bellezza incomprensibile, sfuggente e dolorosa, tutta epifanie e voragini, perfetto controcanto della lenta sedimentazione degli strati dell’essere, ben visibile nella storia personale di ogni individuo gettato sulla terra.