La Lettura, 2 marzo 2025
Dentro i taccuini della liceale che vinse il Nobel
Destino dei grandi è che si frughi nei cassetti loro e dei loro amici, che si perlustrino le vecchie pubblicazioni alla ricerca di qualche pezzo dimenticato. Tanto più è spiegabile nel caso di un’autrice, come la polacca Wisława Szymborska (1923-2012), non solo insignita del Nobel (1996), ma divenuta di culto presso il più ampio pubblico. A proposito del suo successo italiano, Roberto Calasso ebbe a notare: «La Szymborska penetrava fra lettori di ogni tipo, dai più esigenti a quelli che, in linea di massima, evitano la poesia. I più sorprendenti, per vari motivi, erano questi ultimi; mossi dall’ammirazione e da una singolare forma di affetto, come verso qualcuno che sapesse qualcosa di molto preciso su loro stessi». Naturalmente c’è un segreto in questo consenso così largo, da vero fenomeno letterario, che Paolo Febbraro ha provato a spiegare: «Piace così tanto perché è saggistica e ironica, beve la metafisica col cucchiaino, tocca il cielo con un dito, si commisura al lettore senza soverchiarlo, entra in lui e lo espande un poco da dentro». Così alla «gioia di scrivere» dell’autrice corrisponde una simmetrica e liberatoria gioia di leggere da parte di chi si accosta alla sua opera, traendone una forma di adesione esclusiva e assoluta: con la curiosità, per l’appunto, di conoscere ogni truciolo uscito dal suo scrittoio.
Ecco così spiegata la pubblicazione in Italia di Racconto antico e altre poesie disperse, a cura di Andrea Ceccherelli (Adelphi): diversamente dalle due raccolte uscite postume, la tarda e incompiuta Basta così, cui lavorava subito prima della morte, e la giovanile e mai edita Canzone nera (pronta nel 1949), qui abbiamo a che fare con pezzi disomogenei, non pensati per far parte di un libro. La loro composizione si estende lungo un arco di tempo molto ampio, che va dagli anni del liceo fino all’ultimo periodo della vita dell’autrice. L’interesse è proprio nel continuo dialogo, nei fitti rinvii che questi pezzi dispersi intrecciano con l’opera emersa della poetessa, la quale né li ha scelti per il suo canone editoriale, lasciandoli infatti fuori dai suoi libri, né li ha condannati all’inesistenza, alla distruzione, prassi invece comune per un’autrice abituata a gettare nel cestino le cose non degne di pubblicazione e allo stesso modo le fasi elaborative dei suoi testi editi. È così che l’uno o l’altro dei componimenti qui riuniti, tratti dalla sezione di poesie disperse inclusa nel volume «Tutte le poesie», edito a Cracovia nel febbraio 2023, irraggia intorno a sé un’aura di motivi, di temi, di spunti che altrove nell’opera della Szymborska si ritrovano sviluppati, sulla base di un principio di analogia e prossimità o magari di contrasto e di correzione. Prendiamo il componimento inaugurale della serie, il più antico: Nihil novi sub sole. Già ne parlavano nella loro biografia Cianfrusaglie del passato. La vita di Wisława Szymborska (pubblicata da Adelphi a cura di Ceccherelli nel 2015) le autrici Anna Bikont e Joanna Szczesna: «Si ha come l’impressione che questa poesiola scritta al tempo della scuola rappresenti una sorta di esercitazione su uno dei motivi principali dell’opera della Szymborska, come una scala suonata da un futuro musicista».
A trasmetterci il testo, il cui titolo è una celebre massima dell’Ecclesiaste, sono state alcune compagne di liceo della poetessa, a cui si deve l’unico testimone. La riflessione sul tema della vanitas, sulla circostanza per cui tutto è già stato, nulla è veramente nuovo nel mondo («Nulla è mai nuovo, tutto è già stato./ Il sole nasce come sempre è nato», suona l’inizio), avrebbe accompagnato a lungo l’autrice, ma in questo caso all’insegna della palinodia, della rimodulazione. Subito viene in mente una delle poesie più celebri della sua opera, Nulla due volte, in Appello allo Yeti, 1957: «Nulla due volte accade/ né accadrà. Per tal ragione/ si nasce senza esperienza,/ si muore senza assuefazione.// Anche agli alunni più ottusi/ della scuola del pianeta/ di ripeter non è dato/ le stagioni del passato», per citare le prime due quartine nella traduzione di Pietro Marchesani. Non solo. Rispetto a Nihil novi sub sole, databile agli anni tra 1937 e 1941, anche il celebre discorso tenuto in occasione del conferimento del Nobel (Il poeta e il mondo) rovescia la prospettiva: «Mi capita di sognare situazioni irrealizzabili. Nella mia temerarietà immagino per esempio di avere l’occasione di conversare con l’Ecclesiaste, autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanità di ogni agire umano. Mi inchinerei profondamente di fronte a lui, perché si tratta – almeno per me – di uno dei massimi poeti. E poi gli prenderei la mano. “Nulla di nuovo sotto il sole” hai scritto, Ecclesiaste. Però Tu stesso sei nato nuovo sotto il sole. E il poema di cui sei autore è anch’esso nuovo sotto il sole, perché prima di Te non lo ha scritto nessuno. E nuovi sotto il sole sono tutti i Tuoi lettori». In mezzo, tra l’eco liceale della vanitas e la matura rivisitazione dialettica dell’Ecclesiaste, c’è una poesia non compiuta del taccuino, che va nella direzione poi imboccata nel discorso. Fili sotterranei, noti solo alla poetessa, che altre volte la portano a riprendere di una poesia rimasta dispersa solo qualche verso e a riutilizzarlo, trapiantandolo in un altro componimento.
C’è il caso della deliziosa Conversazione, 6 versi della quale vengono riutilizzati in un testo di Domande poste a me stessa (1954), intitolato A un’innamorata infelice. E ancora c’è il componimento Grande numero, pubblicato in rivista nel 1972, di cui si salvano nella versione finale, edita nel libro del 1976, soltanto 5 versi, mentre il resto del componimento viene completamente riscritto. E veniamo ad alcune delle poesie più stimolanti tra le disperse. La poetessa ai suoi utensili, pubblicata in rivista nel 1957, è un controcanto ironico a ogni eloquenza, forse con allusione a quella di regime a cui la poetessa giovane aveva aderito, rimanendone scottata.
I fedeli oggetti (un po’ alla Zbigniew Herbert, come annota Ceccherelli) sono l’antidoto a una poesia in falsetto, altisonante: entrano nei versi, ne punteggiano la quotidianità e allora trascurarli non sarebbe gentile. Addirittura un problema filologico di attribuzione si pone poi per Come sarà?, poesia d’amore lieve e cantabile, degli anni Sessanta, la cui paternità è contesa nelle fonti tra la Szymborska e il cantautore Jonasz Kofta. Certo la poesia avrebbe tutti i numeri per stare tra quelle più celebri sull’amore della nostra autrice, come Innamorati e Un amore felice. Basta citarne la prima parte: «Come sarà, buono o cattivo,/ questo nostro amore?/ Cosa ci prenderà e cosa ci darà?/ Chi finirà per ferire?/ Neppure lui ancora sa/ che uccello lo porterà in volo./ Se una colomba,/ oppure un corvo/ farà cadere una piuma sulla soglia».
Un’altra serie delle disperse si caratterizza per gli aspetti ludici, quasi da filastrocca, o per le citazioni dalle fiabe e la tendenza al micro-racconto. Un esempio è dato dalla sapienziale La camicia di un uomo felice (su un motivo tratto da una fiaba di Hans Christian Andersen), che riflette sul tema dell’essere felici al di là di ogni risorsa materiale e di ogni convenzione sociale. Insomma, questa raccolta ci dà un accesso al mondo della poetessa, permettendo di sbirciare quel poco che del suo lavorio più segreto è rimasto conservato, salvandosi dall’eliminazione di molte carte. Per il lettore affezionato significa stare ancora un poco in compagnia dell’amata autrice e sorprenderne, anche nelle cose più antiche, un tic, un carattere. Come quando, nella liceale Nihil novi sub sole, si prefigura per la studentessa alle prese con i rovesci scolastici quello che poi sarebbe stato il fulcro della sua vita, il suo destino: «Perciò da tutti a volte scappa via/ e piangiucchiando scrive una poesia».