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 2025  marzo 02 Domenica calendario

Un secolo di versi ancora pieno di Ossi di seppia

Si avvicina una ricorrenza tutt’altro che ordinaria. Anzi, una doppia ricorrenza. Il 4 aprile 1925 Eugenio Montale manda a Piero Gobetti il manoscritto definitivo del suo primo libro di poesie, Ossi di seppia, e nella seconda metà di giugno il volumetto vede la luce presso la casa editrice del filosofo torinese. Sono anni non facili per il ventottenne Montale, diplomato in ragioneria, disoccupato, studente di canto (è baritono), legato alle Cinque Terre (a Monterosso c’è la villa di vacanza della famiglia), fondamentali nella geografia degli Ossi. Collaboratore occasionale di giornali (la sua prima recensione, del 1920, è dedicata a Trucioli di Camillo Sbarbaro), già vicino ai maggiori letterati dell’epoca, a cominciare dal poeta e saggista Sergio Solmi e dal drammaturgo Cesare Vico Lodovici, che lo introdurranno a Gobetti. Da quel 1925, sono bastati cinquant’anni a Montale per arrivare al Nobel. Dunque la ricorrenza di questo 2025 è doppia.
Gli Ossi di seppia raccolgono 55 testi, scritti a partire dal 1916 (Meriggiare), alcuni apparsi su riviste prestigiose, come quelle di Giacomo Debenedetti e di Enzo Ferrieri. Del resto, Montale ha già preso contatti a Roma con Emilio Cecchi e a Milano con i giri del «Corriere» per tentare, senza successo, la via del giornalismo. Nell’inverno del ’23 ha conosciuto a Genova il ventiduenne triestino Roberto Bazlen, detto Bobi, il lettore onnivoro che diventerà suo consigliere e corrispondente aperto «su un mondo nuovo». Sarà lui a fargli conoscere Svevo.
Dopo l’edizione Gobetti (mille copie al prezzo di 6 lire), gli Ossi di seppia vengono ristampati nel ’28 dall’editore torinese Ribet (428 esemplari più 22 su carta stampata a mano), accresciuti di 6 nuove poesie e diminuiti di un componimento incluso nella prima edizione. Altre edizioni usciranno presso Carabba di Lanciano, nel 1931, e poi presso Einaudi dal 1942. Il libro, che inizialmente contiene dediche a vari amici, è strutturato armonicamente in 4 sezioni e rappresenta, più dei successivi, «la poesia della negatività senza scampo», formulata con insistenza come rivendicazione non soltanto soggettiva ma collettiva-generazionale. La famosa poesia tempestata di avverbi di negazione «Non chiederci la parola (...)/ Non domandarci la formula (...)» si chiude con un verso destinato a diventare un marchio, pur semplificato, della «filosofia» montaliana: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», fin troppo emblematico almeno quanto l’incipit «Spesso il male di vivere ho incontrato».
La visione di una non-vita, del «delirio di immobilità» si esprime sin dal titolo (in origine era Rottami), che allude ai relitti inariditi, ai detriti, agli scarti portati a riva dal mare. Più che nelle successive poesie, il tema degli Ossi è il paesaggio ligure, «qualche volta allucinato, ma spesso naturalistico» (ipse dixit). È questo il primo «suo» motivo poetico che Montale segnala in una cartolina inviata nel 1934 all’amico Piero Gadda Conti. E nel paesaggio comincia la serie di paradossi di cui Montale è portatore dentro la poesia del Novecento. Il paradosso della Liguria di Levante, scenario marino dell’infanzia, «bellezza scarna, scabra, allucinante», «formidabile» via via declinato come: scoglio, masso brullo, ciottolo, aride onde, sugheri, alghe, petraie, gorgo... «Per istinto – ammette Montale – io tentai un verso che aderisse ad ogni fibra di quel suolo». E pur tuttavia, quel suolo, le cui fibre aderiscono alle fibre della sua poesia, rimane correlato al bisogno, anzi alla necessità di fuggirne. È questa esigenza di «evasione» l’altro motivo poetico, che il poeta evoca come una sorta di «miracolo, diciamo così, laico» e che si esprime con particolare evidenza nell’immagine della «maglia rotta nella rete/ che ci stringe» dalla quale esorta a balzar fuori o nel «varco» della magnifica Casa dei doganieri.
In una ben nota intervista immaginaria del ’46, Montale avrebbe ricordato come in quegli anni avesse agito in lui la suggestione dei contingentisti francesi, su tutti Émile Boutroux, con la dialettica tra necessità e miracolo. Andrea Zanzotto ha parlato della «continua detonazione di grumi-barlumi di forza, anche se questa forza lede e ferisce nel suo atto di destare: tonfi, spari, morsi, unghiate, scatti e simili». Lo stesso vale per l’amore, segnalato nel ’34 come suo secondo motivo dominante: «L’amore, sotto forma di fantasmi che frequentano le varie poesie e provocano le “intermittenze del cuore”». Intermittenze proustiane delegate soprattutto alle figure femminili (qui per esempio la baluginante presenza-assenza di Arletta con «lo sciame dei suoi pensieri») cui il poeta attribuisce una possibile salvezza, l’epifania che svetta nello «scialo/ di triti fatti» e che avrà sviluppo nelle Occasioni.
Aggiungeva Montale nella cartolina del 1934: «Talvolta i motivi possono fondersi, talora sono isolati. Nulla di più semplice; se può esservi qualche oscurità, certo non è voluta di proposito, né amata da me». Niente di meno semplice, in realtà. Ecco un altro paradosso. La poesia di Montale, improntata allo «scabro ed essenziale», all’esperienza del poeta e alla concretezza di oggetti fisici, è comunque una poesia difficile, i cui indizi personali disseminati nei versi risultano spesso indecifrabili. Quella difficoltà, che non coincide con una intenzionale astrattezza, è innegabile ed è innegabile che anche la convivenza di semplicità ed enigma sia un paradosso interno alla poetica montaliana («tendono alla chiarità le cose oscure»).
Enrico Testa ha fatto notare un altro paradosso: la riflessione sull’esistenza, componente «filosofica» essenziale della poesia di Montale, si realizza, soprattutto negli Ossi, «in dati materiali di forte evidenza (il gufo che “svolacchia”, la “carrucola del pozzo”, il “colpo di fucile” nel silenzio della campagna, ad esempio)»: di conseguenza la posizione negativa del soggetto invece di chiudersi in sé si apre al mondo esterno e ai tanti suoi oggetti che «gremiscono il libro in ogni sua parte». Con gli Ossi si affaccia in poesia il soggetto in bilico, con il suo vuoto esistenziale, che in varie forme e toni occuperà il campo per tutto il Novecento: è Alberto Casadei a scoraggiare il lettore dal cercare nella poesia di Montale, sia pure attenta alle riflessioni di Leopardi e di Schopenhauer, una filosofia sistematica. «La sua poesia non diventa filosofia» e in qualche modo proprio per questo la supera, anche perché la problematicità del reale si accompagna con il dubbio sull’efficacia della parola poetica. Ciò che segna la distanza tra il dannunziano Montale e d’Annunzio.
E da questa poesia del paradosso non si può escludere in effetti il rapporto contraddittorio con i classici. Da una parte adesione (un modo per sottrarsi alle avanguardie dominanti); dall’altra frizione, in primis rispetto all’ingombrante d’Annunzio di Alcyone, che di certo rappresenta una fonte di immagini, di vocaboli e anche di tonalità musicale. Se la passione paesaggistica può far pensare a un’affinità, l’esaltazione dell’io e il vitalismo dannunziano al cospetto della natura si rovescia in estraneità e inganno negli Ossi. Quel che lo stesso poeta ha chiamato «classicismo paradossale» comporta necessariamente l’ultimo, ma non ultimo, paradosso con cui il Montale giovane si presenta sulla scena letteraria: è il paradosso stilistico che sposa i preziosismi lessicali (dannunziani, appunto) con i numerosi dialettalismi, e alterna testi brevi tutti interiori con componimenti distesi, narrativi, affabulanti. Questa musica della contraddizione e del paradosso ha avuto la forza per farsi, a sua volta, tradizione. Al punto da diventare una inevitabile e talvolta inconsapevole grammatica profonda per generazioni, persino quando viene ideologicamente rifiutata.