Corriere della Sera, 2 marzo 2025
Intervista a Chiara Bernardini
Chiara Bernardini da Castiglion Fiorentino, 18 chilometri da Arezzo, il 3 marzo sarà alla console dell’ottavo lancio di Starship, la navicella spaziale di Space X destinata ad andare su Marte. Lei è la responsabile di tutta la supervisione. Ingegnera meccanica, è stata la prima nella sua famiglia a laurearsi. Ma già quando era piccola, il papà Antonio, ferroviere (mamma Marinella commerciante), la portava volentieri nella sala dei bottoni dalla quale dirigeva il traffico Roma-Firenze durante il turno di notte: lei un po’ dormiva e un po’ pigiava pulsanti, sotto l’occhio vigile del padre. Adesso che di anni ne ha 45, i pulsanti li preme nel centro di comando di Starbase a Brownsville, in Texas, dove appunto vengono testati i lanci sperimentali di Starship. Di lei parlano anche Elvina Finzi e Amalia Ercoli Finzi nel libro Le ragazze della Luna, scritto per Mondadori con Tommaso Tirelli.
Chiara Bernardini, quanto è emozionata?
«Molto. E sono anche molto in ansia».
Immagino. L’ultimo lancio, a gennaio, era fallito.
«Beh, non siamo stati contenti. Però abbiamo fatto dei cambiamenti. Elon lo aveva scritto subito su X: è stata un’occasione per imparare».
Torniamo indietro. Com’è stato il passaggio dai treni alle navicelle spaziali?
«Quando ero piccola, oltre a frequentare la sala dei bottoni del traffico ferroviario da Roma a Firenze, assistevo anche ai test di prova degli ETR.500, i primi treni ad alta velocità. Mio padre mi portava in queste stazioncine piccole dove li vedevo passare come un fulmine».
E la passione per lo Spazio?
«Sempre da bambina, negli anni dello Shuttle: quando c’erano i lanci in tv chiedevo al resto della famiglia di stare in silenzio. Ricordo, per esempio, il disastro del 1986, quando morirono in sette, compresa una maestra elementare».
In America come ci è finita?
«Dopo la laurea in Ingegneria meccanica a Firenze ho vinto una borsa triennale del programma Marie Curie, con la quale sono andata alla Ohio State University e poi sono rientrata a Firenze».
E perché non è rimasta in Italia?
«Sono molto grata a quell’esperienza, ma mi ero disabituata a una certa mentalità al ribasso, a fare il minimo indispensabile. Per alcuni non avrei neanche dovuto provare a fare alcune cose perché non ci sarei riuscita, mentre in America c’era chi mi dava fiducia e mi aveva permesso di fiorire, ponendomi sfide che nemmeno io pensavo di riuscire ad affrontare. Così ho ricominciato a mandare curricula un po’ ovunque negli Stati Uniti. Finché non mi hanno fatto un’offerta alla University of California di Sacramento. Però lì sono entrata in crisi».
chiara bernardini con la famiglia
Perché?
«Ho temuto di adagiarmi, accettando l’incarico, e di dover dedicare troppe energie alla burocrazia, mentre io volevo “mettere le mani in pasta”. L’opportunità venne da Notre Dame, in Indiana, dove mi offrirono di partecipare alla costruzione di un laboratorio di turbomacchine. Ci sono rimasta per sei anni e abbiamo creato l’impianto per fare test per turbine e compressori».
Com’è arrivata, poi, a Space X?
«In Indiana iniziai ad appassionarmi al lavoro di Space X, ero talmente fissata che pure quando uscivo a cena con i miei amici mi guardavo sul telefonino i primi test di Starship, su un canale di YouTube dove mandavano la diretta 24 ore su 24. Finché un mio amico, Mauro Prina, che già lavorava per Space X, non mi convinse a fare l’application».
La presero subito?
«Sì. A Starbase per il colloquio, in Texas, sono uscita dai colloqui pensando di aver fatto malissimo. E invece, mentre guidavo in mezzo al nulla, è arrivata la risposta: mi avevano presa. Ho cominciato il 17 maggio del 2021».
Quali sono i suoi incarichi?
«Fino a settembre ero a capo di un piccolo team con la responsabilità dei motori del booster di Starship, la parte bassa dalla quale dopo il lancio si stacca la navicella. Ora, invece, il team di cui faccio parte è responsabile dei sistemi di propulsione di tutta la navicella e io in particolare sono alla console dell’ottavo lancio, in programma il 3 marzo».
Ha ottenuto la cittadinanza americana?
«Sì, da due anni. Però ho mantenuto anche quella italiana. Se mi avessero chiesto di scegliere non avrei mai tradito l’Italia».
Quante ore lavora?
«Dipende: dalle 11 alle 14 ore al giorno, spesso anche sabato e domenica. Però la domenica meno».
Ha conosciuto Elon Musk?
«L’ho incontrato di persona, ma l’unica volta che gli ho rivolto la parola finora è stato dopo il volo 5, quando il booster è tornato indietro. Lui era fuori dalla sala di controllo e io sono andata a ringraziarlo, perché se non ci avesse spinti a progettare una cosa impensabile come far rientrare il booster e farlo prendere dalle braccia della torre, non lo avremmo mai fatto».
Siamo davvero vicini ad andare su Marte?
«Quello che Musk dice è quello che pensa. E lui dice che vuole andare su Marte per salvaguardare la coscienza umana. Questo da fuori non si capisce».
Perché ha tutta questa fretta?
«Ci sta spingendo a raggiungere l’obiettivo il prima possibile perché è preoccupato che succeda qualcosa nella Terra e dunque prima riusciamo a trovare un back-up plan per il nostro pianeta e meglio è».
Ma poi chi ci andrà su Marte?
«La navicella Starship potrebbe portare anche 100 persone per volta, ma la sfida tecnologica è di poterne produrre una al giorno in modo da far partire un razzo ogni giorno».
Il rischio non è che potranno pagarsi il biglietto solo quelli che se lo possono permettere?
«Sono domande aperte. Però il costo del razzo è ancora da risolvere. L’obiettivo è che un giorno che diventi abbordabile. Magari non nella nostra vita».
Lei crede in Dio?
«Sì, faccio parte di Comunione e Liberazione e dei Memores Domini, vivendo la vocazione di dedizione totale a Dio dentro il mondo e praticando i consigli evangelici nel quotidiano».
Riesce ad andare a messa?
«Ogni domenica, cascasse il mondo. Ma il Signore mi è fedele in ogni situazione e in ogni momento. Se così non fosse, perderebbe di significato tutto quello che faccio: lui è presente nella mia vita ogni giorno, non è una parentesi».