Corriere della Sera, 2 marzo 2025
Effetto-Trump: la caduta della DEI (diversità, equità, inclusione)
Negli Stati Uniti è partito il fuggi-fuggi delle aziende dalle politiche di diversità, equità e inclusione. In sintesi: dalla DEI. Contrordine compagni! Prima, tutti a sbandierare ai quattro venti le policy linguaggio inclusivo e equa presenza di donne, immigrati, disabili, comunità Lgbtq+. Ora basta: troppo faticoso, costoso, persino controproducente dopo la fatwa lanciata da Musk: «DEI must DIE», la DEI deve morire diceva con un tweet del dicembre 2023. La domanda sorge spontanea: che ne sarà della DEI a casa nostra? Su queste politiche gli Stati Uniti avevano fatto da apripista: saremo in grado di non accodarci all’inversione di rotta?
Negli Usa le prime a rinunciare alla Dei sono state aziende dai marchi notissimi anche in Europa come Harley Davidson e Jack Daniel’s, insieme con altri meno familiari ma vere potenze Oltreoceano come Tractor Supply (catena di negozi per ranch e aziende agricole), Molson Coors (multinazionale delle bevande alcoliche), John Deere (macchinari agricoli). In questi casi dietro la marcia indietro ci sarebbero le pressioni della maschia clientela, costituita in larghissima parte da uomini bianchi dell’America profonda vicini alle idee della destra trumpiana. Ben presto la fuga dalla DEI si è – allargata dal settore delle aziende con consumatori conservatori per coinvolgere anche realtà più generaliste come Ford nell’automotive, Walmart nella grande distribuzione, i grandi magazzini Lowe’s, Starbucks, Jp Morgan Chase, McDonald’s. Fino a contagiare anche le aziende tecnologiche della Silicon Valley, che fino a ieri avevano fatto della tutela della diversità una bandiera. Tra le marce indietro più sorprendenti quelle di Amazon e Meta (Instagram, Facebook, WhatsApp). All’inizio di febbraio anche Google e Accenture hanno “ceduto” al diktat di Trump e Musk.
REAZIONE UGUALE E CONTRARIA
Torniamo allora a bomba alla questione iniziale: che ne sarà adesso in Italia e in Europa delle politiche DEI? «Rompere, tramortire, sdoganare: questa è l’azione che mette in campo il presidente americano», analizza il tema la pubblicitaria Annamaria Testa. «Rompere valori dati per acquisiti e considerati politicamente corretti, tramortire i cittadini con un effetto spiazzamento, sdoganare ciò che prima non si sarebbe potuto dire in pubblico, cambiando, con ciò, il paesaggio cognitivo delle persone. E il gioco sta riuscendo». Detto questo, secondo Testa non ci saranno conseguenze immediate in Europa sul fronte della DEI: «Prima di tutto per un motivo: l’insediamento di Trump è arrivato a gennaio quando le aziende avevano già deciso i budget per il 2025. Nel medio termine è possibile che alcune cose cambino, ma è difficile dire adesso come andrà a finire. Siamo in una fase di passaggio turbolenta. Alcune aziende potrebbero decidere di distinguersi al contrario, rivendicando con orgoglio le proprie politiche DEI. E dire: continuiamo sulla nostra strada. Anche questo è un modo per diversificarsi e delineare la propria identità». «Qualcosa del genere sta avvenendo in Germania dove Baiersdorf, storica multinazionale di prodotti per la cura della persona (suo tra gli altri il marchio Nivea; ndr) ha riaffermato con forza le politiche di diversità e inclusione, facendone un tratto distintivo», si inserisce nel ragionamento Sonia Malaspina, direttrice relazioni istituzionali di Danone e presidente del comitato scientifico di Winning Women Institute. E in Italia? «Le aziende vanno avanti, basta vedere la velocità con cui stanno investendo sulla certificazione di genere», risponde Malaspina.
CHI SE LA SENTE DI INIMICARSI LE DONNE?
Il fattore base di cui tenere conto è che le politiche DEI attuate in Europa, in particolare in Italia, sono molto diverse da quelle Usa. Meno ideologiche, più basate sulla valorizzazione del merito. E poi il nostro Paese ha stabilmente da decenni il più basso tasso di occupazione femminile in Europa. Le donne hanno retribuzioni più basse e contratti più precari. La “DEI all’italiana” è stata finora per il 90% costituita da azioni per l’equità di genere e solo per il restante 10 da interventi a favore dell’inclusione di immigrati, disabili e comunità Lgbtq+. Il fatto che sia necessario un più equo coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro in Italia non è messo in discussione da nessuna parte politica, nemmeno a destra. «Aggiungerei un punto», interviene Annamaria Testa. «Le donne sono le maggiori responsabili degli acquisti, dagli alimentari passando per la cura della persona e arrivando fino alle auto. Difficilmente un’azienda può permettersi di far proprie politiche che penalizzano le donne».
Se si vuole un termometro di quanto le imprese sono interessate a coinvolgere di più le donne, una cartina di tornasole la si trova parlando con Luca Semeraro, amministratore delegato LHH Italia. «L’esigenza di coinvolgere di più le donne è talmente sentita che le imprese sono disposte a pagare un extra prezzo quando siamo in grado di proporre loro, per una certa posizione, una candidata donna con le caratteristiche giuste», racconta Semeraro. «Anche io sono convinto che sulla inclusione di genere non si faranno passi indietro. Questo non significa che vada tutto bene. Il punto è che oggi la DEI in Italia è molto meno diffusa di quanto non lo fosse negli Usa fino a ieri, oltre a essere sbilanciata sulla questione di genere. Secondo una nostra indagine, meno di una azienda su cinque dice di avere programmi specifici. Il tessuto imprenditoriale nel nostro Paese è fatto nella stragrande maggioranza di piccole o piccolissime imprese che semplicemente non hanno preso in considerazione queste azioni. E per l’integrazione lavorativa degli immigrati di seconda e terza generazione si fa ancora troppo poco».
PERFORMANCE MIGLIORI: BASTERANNO?
Il principale motivo per andare avanti con la DEI dovrebbe essere il seguente: le aziende con maggiore diversità e inclusione hanno migliori risultati sul mercato. Questo evidenzia un’indagine di Credit Swiss Research, in cui si mostra come le aziende dove le donne sono meglio rappresentate nel management hanno anche performance migliori in Borsa. Un report McKinsey del 2023 dice che le società con i più alti livelli di equità di genere hanno il 39% di possibilità in più di avere performance finanziarie migliori della media. Questo il piatto della bilancia relativo ai vantaggi. Ma l’inversione di rotta culturale in atto negli Usa impone anche di guardare al piatto degli svantaggi: chi ha negli Stati Uniti un mercato di riferimento potrebbe avere qualche problema. Trump non va per il sottile. La sua amministrazione – per dare l’idea – ha dato due settimane di tempo a scuole e college americani per eliminare i programmi di inclusione verso afroamericani, latinos, disabili, gay e transgender: altrimenti perderanno i contributi federali. Interessante sarà osservare come si muoveranno le nostre realtà che hanno più interessi negli Usa, da Ferrero a Stellantis. «Alcune multinazionali saranno spinte a riconsiderare le proprie strategie DEI in linea con le richieste del governo Usa; altre, al contrario, rafforzeranno il loro impegno, consapevoli che la valorizzazione delle unicità non è solo una questione etica ma un valore strategico per la competitività e la crescita», dice Barbara Falcomer, direttrice generale di ValoreD. «Come associazione ribadiamo la necessità di non arretrare su questi principi».
UNA QUESTIONE DI ATTRATTIVITÀ
A conti fatti, la migliore deterrenza in Italia rispetto a passi indietro sulla DEI è legata al tema dell’attrattività. Detto in modo brutale: se hai bisogno di un ingegnere e non lo trovi maschio e bianco, possono andare benissimo una donna, uno straniero o un gay. Anche i clienti di marchi come Ferrari, Ducati, Lamborghini sono in gran parte maschi e bianchi come quelli di Harley, ma nessuno si è mai sognato finora nella Motor Valley emiliana di fare passi indietro sulla DEI. In Federmeccanica è stata addirittura istituita una vicepresidenza per la Cultura di genere per Claudia Persico: «Difficile per me comprendere come negli Usa le imprese cambino di colpo rotta su un input dell’amministrazione pubblica», dice. «A casa nostra le aziende danno attenzione a questo tema perché lo ritengono importante per favorire la crescita. Prima di tutto per l’attrattività rispetto ai talenti. Non abbiamo cambiato idea». Sulla stessa lunghezza d’onda Maria Anghileri, vicepresidente di Confindustria e rappresentante dei Giovani: «Creare un ambiente di lavoro in cui le persone sono valutate per il valore che creano e non per le caratteristiche che hanno è importantissimo. Nella mia squadra di presidenza ci sono tanti uomini quante donne. L’inclusività non è solo una questione culturale, ha anche un valore economico».
A questo punto cruciali nella partita potrebbero essere due attori fondamentali: consumatori e finanza. I primi quando fanno la spesa possono premiare le aziende anche in funzione dei valori sposati. La seconda deve decidere se investire sull’equità resta un valore.