la Repubblica, 2 marzo 2025
Intervista ad Anna Maria Mori
Vent’anni a Repubblica, a partire dal numero zero, il 5 dicembre del 1975. «In redazione eravamo una sessantina di giornalisti», racconta Anna Maria Mori. «Le donne? Credo fossimo in dieci o giù di lì». Pochine. Ride: «Per noi era già un fatto straordinario. Le donne nei quotidiani scarseggiavano. Prima di arrivare in piazza Indipendenza avevo cercato di farmi assumere dal Messaggero, su cui peraltro già scrivevo. Sai che cosa mi aveva detto il direttore, il socialista illuminato Italo Pietra? “Ma io qui di donne ne ho già una, poi i maschi si distraggono...”».
Di Repubblica, un giornale «vissuto come un amore», Anna Maria Mori ha scritto in Origami, il libro dove ha ripercorso la sua vita e i suoi incontri con alcuni protagonisti della cultura dell’ultimo mezzo secolo. Prima e dopo questo amore, finito in modo brusco nel 1995, ha lavorato in altri giornali, in radio e in tv, ha scritto libri e curato documentari sul dramma dell’esodo istriano dopo la guerra, dramma che lei, nata a Pola 88 anni fa, ha vissuto e subìto di persona.
Oggi, ironica e diretta come sempre, racconta: «Nel ’75 ero caporedattore di Annabella e non ne potevo più di stare in un settimanale femminile. Seguivo l’attualità e mi pesava che niente di quello che facevo, comprese le interviste a Fanfani e Andreotti, avesse eco. I femminili non entravano nelle mazzette dei giornalisti e dei politici, perciò quello che scrivevano non scalfiva minimamente il dibattito politico-culturale».
Per questo volevi essere assunta al Messaggero?
«Sì, lì avevo una rubrica in terza pagina, che firmavo con uno pseudonimo. Si intitolava Una certa Roma: erano spigolature, anche ironiche, tra il pettegolezzo e no, sul mondo della cultura romano. Un giorno mi arrivò un biglietto di Enzo Forcella, giornalista e scrittore, futuro direttore di Radio 3: “Non ho mai avuto una popolarità uguale a quella che lei mi ha dato con il pezzetto nella sua rubrica…”. Fu lui a fare il mio nome a Scalfari. E mi segnalò anche Andrea Barbato, che era tra i fondatori di Repubblica ma, alla vigilia dell’uscita del giornale, fu chiamato a dirigere il Tg2. Scalfari mi convocò tra settembre e ottobre».
Come andò l’incontro?
«Ero in un periodo di grande stress perché i miei figli avevano cinque e due anni: lasciarli tante ore per lavorare mi procurava un’angoscia continua. E ora temevo il passaggio a un quotidiano, dove non avrei potuto darmi io gli orari, come nel settimanale. Così, di quell’incontro ricordo soltanto che, vedendo Scalfari per la prima volta, mi venne dal cuore di raccontargli tutte le mie ansie di madre. Lui mi disse: i figli sono un regalo. Certo, pensai, per un uomo è facile… Io ho ancora in mente mia figlia Francesca che, non trovando la palla finita sotto al letto, diceva, agitando le manine: la palla non c’è più, deve essere andata in ufficio...».
Però alla fine decidesti di salire a bordo…
«E cominciò il lavoro matto e disperatissimo, per citare Leopardi: in redazione dodici ore al giorno, davvero come pazzi. Però in redazione eravamo felici, perché avevamo la sensazione di creare qualcosa. Ognuno di noi si sentiva un elemento fondamentale dell’ingranaggio: importante, non come protagonista, ma come parte di un progetto. Venivi ascoltato, la tua opinione contava. Eravamo una comunità».
Che ruolo avevano le donne?
«Il giornale ovviamente era in mano ai maschi: quelli che decidevano, quelli che dettavano la linea erano maschi. A parte Rosellina Balbi, a cui presto furono affidate le pagine della cultura. Però le donne erano ascoltate. Tra le altre, ricordo Barbara Spinelli e Miriam Mafai, generosa, forte e amichevole, ma anche molto pragmatica. Chiara Valenziano, prima cronista e poi inviata degli esteri, che contestava sempre tutto e tutti. Vittoria Sivo, all’economia, Rossella Sleiter, con me agli spettacoli, e poco dopo Irene Bignardi, di cui sarei diventata molto amica. C’era anche Natalia Aspesi, ma era a Milano».
«È vero, uno dei manifesti di promozione del giornale diceva “Dedicato a un intellettuale”. Non so bene come, ma a un certo punto divenne “Dedicato a un’intellettuale”. C’era la convinzione che si potesse pescare in un pubblico di lettrici non attratto dagli altri quotidiani, e così fu: grazie anche alle firme femminili e ai temi trattati, per esempio il femminismo».
Tu di che cosa ti occupavi?
«Anche di femminismo: penso soprattutto a un articolo sul grande corteo delle donne “Riprendiamoci la notte”, una manifestazione di una bellezza e vivacità straordinarie, che andò in prima pagina. Ma nei primi otto anni seguivo soprattutto la Rai. C’era appena stata la riforma, grazie alla quale il controllo del servizio pubblico era passato dal governo al Parlamento. A Repubblica abbiamo praticamente inventato l’informazione sulla politica della Rai, che non esisteva fino a quel momento: io passavo le mie giornate tra i corridoi di viale Mazzini e la commissione di Vigilanza. Scalfari si divertiva per i miei articoli “in punta di penna” su certi parlamentari e consiglieri di amministrazione…».
Pezzi scritti in tutta libertà?
«Sì, tra l’altro allora della Rai si occupava la redazione degli Spettacoli, e io avevo un rapporto meraviglioso con il capo, Orazio Gavioli. Si fidava di me ed era una persona di grande cultura, spessore, eleganza. Con Repubblica, gli spettacoli sono diventati fondamentali nel giornale grazie alla squadra che ci lavorava: Gavioli, Tullio Kezich, un gruppo agguerritissimo di critici di teatro. Ci sentivamo ed eravamo liberi».
E dei programmi tv parlavate?
«Molto poco. Una volta Scalfari ci chiese di fare una pagina su Portobello di Enzo Tortora, un programma popolarissimo. Io fui presa dalla furia: “Ti ricordi di essere popolare solo nelle pagine degli spettacoli…”. Certo, poi la pagina su Portobello l’abbiamo fatta (ride)».
Momenti difficili?
«Il rapimento Moro: Repubblica si schierò contro la trattativa. Io ero a favore, ma nel giornale la linea era un’altra e io mi occupavo d’altro. Feci soltanto un pezzo sui bigliettini lasciati a via Fani, dove era avvenuto il sequestro di Moro, con la strage degli uomini della scorta. E aderii alla raccolta di firme per la trattativa lanciata da Lotta continua. Non fui la sola. Forse al giornale non se ne accorsero, forse fecero finta di non accorgersene, comunque non mi dissero nulla. Poi scrissi un piccolo libro su Il silenzio delle donne e il caso Moro. Ho sempre rivendicato di pensare con la mia testa».
A un certo punto hai smesso di seguire la Rai e cominciato a fare interviste.
«Ho incontrato Fellini, Ferrero, Bellocchio, Wenders, Montaldo... In fondo, più che lo spettacolo in sé, mi interessavano le persone che lo spettacolo lo facevano: spesso avevano uno sguardo più coraggioso e libero rispetto a quelli che abitualmente venivano definiti la classe intellettuale».
Hai intervistato anche Marguerite Yourcenar.
«La vidi per caso a Venezia e le lasciai un bigliettino in albergo pregandola di incontrarmi. Contro tutte le mie previsioni, accettò. Ero emozionatissima, avrei parlato con l’autrice straordinaria delle Memorie di Adriano. Mi fidavo poco del mio francese e avevo paura di perdermi qualcosa delle sue risposte: così, come pochissime altre volte nella mia vita, ho usato il registratore. L’intervista fu ampia, bella, lasciai il registratore in albergo e andai a lavorare a un altro servizio. Quando la sera tornai nella mia stanza, il nastro con l’intervista era sparito, perso o rubato non so. Fui presa dal terrore e passai una delle peggiori notti della mia vita, sudando e cercando di ricostruire a memoria il dialogo. Per fortuna ci riuscii. E l’intervista uscì nelle pagine della severissima Rosellina Balbi».