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 2025  marzo 02 Domenica calendario

Intervista ad Alessandro Tonali

No, non è esagerato parlare di una prima e di una seconda vita. Il mio stile di vita era negativo. Ero chiuso con tutti e questo mi faceva cambiare comportamento: anche con le persone che mi volevano bene e alle quali volevo bene. Ero così sia al campo di allenamento sia a casa, con amici e familiari. Oggi, per fortuna, sono diverso». Oggi Sandro Tonali, 24 anni, calciatore del Newcastle e della Nazionale, è un giovane uomo che sorride. E non abbassa mai lo sguardo. Che scherza volentieri. Si è liberato di un peso enorme, consapevole della fortuna che stava prendendo a calci al posto del pallone, quando nei momenti vuoti afferrava il telefonino e scommetteva compulsivamente online sulle partite.
Quella era la sua prima vita, interrotta il 12 ottobre 2023 dall’arrivo della polizia a Coverciano, il centro tecnico della Nazionale. Gli sequestrarono telefonino e tablet. Lasciò il ritiro. Poi la confessione e la squalifica, confermata anche dalla giustizia sportiva inglese. Il limbo dei dieci mesi in castigo, 308 lunghissimi giorni senza più poter fare il mestiere al quale si era consacrato: spettatore suo malgrado, a guardare gli altri in campo. Il duro lavoro su se stesso, il lungo percorso psicologico, gli incontri coi ragazzi dei settori giovanili e delle scuole organizzati dalla Figc, la Federcalcio italiana. Il 28 agosto 2024 al City Ground, casa del Nottingham Forest – e ancora di più poi col ritorno al St James’s di Newcastle, stadio di una città dove il football è più che mai religione e gli eroi del pallone non vengono giudicati dai tifosi, solo amati incondizionatamente – l’uscita dal tunnel degli spogliatoi è stata tale anche in senso metaforico. Quando Tonali è sbucato sul prato e ha visto due striscioni giganteschi (“Midfield Maestro from Milano”) e in mezzo una bandiera italiana col suo volto, ha capito che l’incubo era finito. Nove giorni dopo a Parigi, al Parco dei Principi, la catarsi si è compiuta. Il midfield del Newcastle è ridiventato centrocampista titolare dell’Italia, con la sua maglia numero 8, ed è stato il migliore nella vittoria per 3-1. La risalita è proseguita nei mesi, via via sempre più agile: sono arrivati la prima doppietta al St James’s, contro il Brentford in Coppa di Lega, e lo spettacolare gol a Southampton in Premier League. E ora che sta trascinando il club nella zona nobile del campionato inglese, considerato il più competitivo del mondo, e aspetta la finale della Coppa di Lega (il 16 marzo a Wembley contro il Liverpool) la sua storia appare più che mai un esempio di riscatto, da non tradire. Per chi soffre di ludopatia. Per chi è silenzioso prigioniero di qualunque dipendenza. E per tutti i ragazzi che cercano punti di riferimento nei loro idoli.
ENRICO CURRÒ: Sandro, che ricordo ha di quel 12 ottobre?
SANDRO TONALI: «Un ricordo del quale non vado fiero, ma che è giusto tenere in mente. Mi fa spesso pensare, ragionare, capire tutto il prima e il dopo».
EC: Ricorda la prima scommessa?
ST: «No. È diventata un’abitudine a 17-18 anni. E la normalità quando ha cominciato a prendermi tanto tempo. Il fatto che fosse online mi oscurava da tutto, mi chiudevo nel mio guscio».
EC: Sempre stato introverso?
ST: «Con famiglia e amici no. Con i compagni e in ambito sportivo sì. Non per diffidenza, ma abitudine: fin da ragazzino ero sempre il più piccolo. È difficile che crescere con gente più grande ti faccia essere estroverso. I primi anni di Brescia mi isolavo, non condividevo i miei pensieri con nessuno».
EC: Ha sempre voluto fare il calciatore?
ST: «È stato uno dei primi sogni e mi è bastato: gli altri li ho lasciati stare. Da bambino, nel Lombardia1 a Milano, ero il più bravo e a Piacenza anche, malgrado fossi il più basso. Invece al Brescia ho dovuto superare delle difficoltà. Ma la passione, il divertirmi e riuscire a fare cose che gli altri faticavano a fare, mi ha permesso di capire che ero più bravo della media».
EC: Questa facilità è una dote innata?
ST: «Non credo di avere mai avuto quel talento per il quale uno dice: “è nato per il calcio”. Avevo tanto di tutto, ma non ero da 10 in qualcosa. Anch’io ho avuto bisogno di lavorare, fermarmi, faticare. Però non vivevo 24 ore per il pallone. Semmai, siccome non giocavo vicino casa e il calcio mi occupava tanto, sentivo di dover riuscire per ripagare i miei dei tanti sacrifici. Ma nessuno mi ha fatto sentire in debito».
EC: Spesso capita il contrario?
ST: «Sì, spesso un ragazzino di talento viene schiacciato dalle persone che ha vicino. Da piccolo non se ne accorge, ma c’è chi si perde per le pressioni, le responsabilità. A me nessuno ha mai detto che dovevo diventare calciatore professionista e guadagnare tanti soldi per i miei genitori».
EC: Chi la portava agli allenamenti?
ST: «A volte i miei genitori: mia mamma faceva la ricamatrice, mio padre prima il muratore, poi ha lavorato alle recinzioni di stadi e concerti. Altre volte mi ha portato mio zio. E poi mio fratello, quando ha preso la patente».
EC: Mai pensato di mollare?
ST: «All’inizio c’era il trend dei calciatori fisici. Ci stavo male, però questo turbamento passò in fretta. Piuttosto è a Brescia che ho pensato di tornare a casa: avevo 15 anni, avevo cambiato scuola, dovevo farmi nuovi amici, ero solo. Mi facevo tante domande. Ma ho resistito e sono andato avanti».
EC: Com’era il rapporto con la scuola?
ST: «Andavo a una privata. A 16 anni ho iniziato ad allenarmi con la prima squadra al mattino, non potevo essere presente in classe. Avevo le lezioni sia online sia in presenza il pomeriggio, in modo da recuperare il giorno stesso. Ma non l’ho finita. È un cruccio? L’anno della maturità sono stato convocato per gli Europei Under19 e l’anno dopo per gli Under21. Da quel momento mi sono ritrovato fisso in prima squadra, mi allenavo tutte le mattine e facevo le trasferte. Ho deciso di non andare avanti: era pesante e avevo troppe responsabilità».
EC: “Altro che quand’era all’oratorio”, canterebbe Celentano.
ST: «A Sant’Angelo Lodigiano, l’epoca della spensieratezza. Ho iniziato a giocare lì con gli amici di mio fratello, più grandi. Ci siamo accorti che ero bravino: un bimbo di 6 anni che stava in mezzo al campo senza problemi anche con ragazzini di 11-12».
EC: Un predestinato?
ST: «Semmai fortunato: è un attimo che uno più bravo di te oscuri tutti gli altri. Io non mi sono mai trovato in quella situazione. Questo mi ha aiutato».
EC: Però è nato lo stesso giorno, 8 maggio, di un simbolo come Franco Baresi.
ST: «Quarant’anni dopo, lui del 1960 e io del 2000: una coincidenza rara. Le poche volte che ho indossato la fascia di capitano del Milan me le ricordo tutte: con l’Empoli, col Torino in Coppa Italia, col Chelsea in Champions League. Due battute veloci con Franco, su questo, ci sono scappate».
EC: Baresi è cresciuto in un altro oratorio lombardo, a Travagliato.
ST: «Le nostre sono vite diverse, come diverse sono le generazioni. Però siamo cresciuti vicino alla città e io ho anche giocato qualche partita a Travagliato. Franco è sempre stato un idolo. Io ho sempre tifato Milan e mio papà è un tifoso sfegatato».
EC: Che cos’è Sant’Angelo oggi per lei?
ST: «Casa, dove sono nato e cresciuto. È un paese che non lascerò, anche se ci torno poco e forse non ci vivrò. La mia famiglia è lì, gli amici pure. Quando ero al Milan tornavo spesso e non avvertivo il senso di mancanza di oggi. Quando ero piccolo, al paese si andava al bar. Perciò ogni volta che passo dalla piazza, continuo a guardarlo: quanti ricordi».
EC: Qual è stato il sacrificio più grande?
ST: «A volte dico ai miei amici che non siamo andati a divertirci insieme, quando avevo 14-16 anni. Oggi non posso mai essere totalmente libero, ho sempre gli occhi puntati addosso. In quel periodo ho un po’ lasciato da parte gli amici. La mia famiglia l’ho riavuta dopo i 19, quando ho preso la patente. Ma il periodo che dicono sia il più bello con gli amici, l’adolescenza, io l’ho vissuto poco».
EC: È un rimpianto?
ST: «Sono stato ricompensato, diventando calciatore. Non vivere l’adolescenza e poi non riuscire a diventare qualcuno mi avrebbe fatto pesare doppiamente quella mancanza. Comunque gli amici non li ho persi. Ne ho 5 in particolare: lavorano e vivono a Sant’Angelo e dintorni. Fanno lavori normali, barista o metalmeccanico. Ogni tanto vengono a trovarmi, ma non spesso perché la distanza non aiuta. Ci sentiamo regolarmente. Come con nonna Gina, la tifosa n° 1».
EC: Dove ha conosciuto Giulia, la sua fidanzata?
ST: «In discoteca a Brescia a 17 anni. Siamo diventati amici, ci siamo fidanzati a 19. Lei mi ha seguito in Inghilterra. Condividiamo tante cose: l’inglese l’ho imparato bene, mentre col geordie, il dialetto di Newcastle, fatico ancora un po’».

EC: Come si difende dal rischio dei finti amici che si avvicinano ai “famosi”?
ST: «I miei soliti 5 amici sono stati uno scudo. Qualsiasi persona mi si avvicini, dopo che sono diventato Tonali, viene valutata anche da loro: cercano di capire chi è, cosa fa e cosa vuole. Non affrontare tutto questo da solo, ma con loro e Giulia, mi ha creato una bolla difficile da penetrare».
EC: Il rischio dell’amicizia interessata non si corre tra sportivi di successo.
ST: «Con Jannik Sinner ci sentiamo: da quando è venuto a Milanello abbiamo mantenuto il rapporto. Nessuno nel tennis è al suo livello. Mentalmente è una roccia, impossibile da smuovere. Tanta gente prova ad attaccarlo, ma lui è un modello. Un italiano che raggiunge quel livello può essere criticato solo da chi è invidioso».
EC: Sant’Angelo è anche il paese di Gallinari, cestista ex-Nba, ora a Porto Rico.
ST: «Con Danilo mi sento meno: è più grande di me e lui ha un altro fuso orario. Ma è l’orgoglio della nostra gente. Me ne sono reso conto appena è successo a me. Quando passi dal Brescia al Milan e poi alla Premier League, la gente ti fa sentire la vicinanza. E capisci come sia possibile rendere gli altri fieri di te».
EC: Quando ha avuto la consapevolezza che le scommesse stavano diventando una dipendenza?
ST: «Credo in realtà di non averla mai avuta. Quando una persona si ritrova in una situazione del genere, è difficile chiederle se è malata. Ti dirà sempre di no. Anche se sente che non è così. Non può pensare di avere quel problema, quindi tende a nasconderlo».
EC: In questa rimozione inconscia contava la grande disponibilità economica?
ST: «Nei mesi lontano dal campo ho passato tanto tempo con lo psicologo. Il suo lavoro era farmi capire come ci ero caduto. Di solito lo si capisce nel momento in cui si perde qualcosa: famiglia, lavoro, stipendio. Invece nel mio caso la disponibilità economica non mi ha fatto accorgere della serietà della cosa. È stato un lavoro di recupero difficile. Non potevo prendere farmaci specifici, perché col 95% di quelli sarei risultato positivo all’antidoping, così è stato tutto un percorso mentale: durato mesi, con psicologo e psichiatra».
EC: La squalifica è stata decisiva?
ST: «Nei primi due mesi ero staccato da tutti, poi rientrando nella vita, allenandomi tutti i giorni senza avere la partita, ho capito che pagavo per quello che avevo fatto. Passare 10 mesi a casa, come per un infortunio, sarebbe stato diverso rispetto allo stare fuori allenandomi sei volte la settimana: il settimo giorno poi ero costretto a guardare».
EC: Quanto l’ha aiutata l’Inghilterra?
ST: «Tanto. Compagni e allenatore mi hanno sempre tenuto dentro, come staff e dirigenza. I tifosi del Newcastle e quelli avversari non mi hanno mai giudicato. Qui rispettano i problemi di tutti, non calcano la mano e cercano di aiutarti. L’aiuto più grande me l’hanno dato il professore Gabriele Sani, primario del reparto di psichiatria dell’ospedale Gemelli di Roma, i miei familiari, Giulia, Andrea Romeo e la sua famiglia che sono qui accanto a me, i miei procuratori Marianna Mecacci e Giuseppe Riso. Questa situazione ha rinsaldato il rapporto».
EC: Il telefonino può essere una droga?
ST: «Nell’ultimo anno non l’ho avuto per 6 mesi. Non si può parlare di disintossicazione, perché serve. Certo ho provato un senso di libertà: la sensazione di essere a posto anche senza. Da lì ho mantenuto un rapporto un po’ distaccato: lo uso quando ne ho bisogno. Prima non potevo fare da stanza a stanza, oggi lo prendo quando esco di casa e lo lascio rientrando. Lo riprendo solo se mi chiamano mamma, papà o qualche mio familiare. E coi social il rapporto è minimo».
EC: Com’era la vita durante la squalifica?
ST: «Il primo mese ero in viaggio tra Italia e Inghilterra. Non ho mai sfiorato la depressione, perché ho lavorato subito su me stesso. Tre colloqui a settimana online e uno in presenza ogni mese. Non ne ho saltato uno. Si parlava sempre del giorno prima, con tre lavori specifici: uno sulla mia persona, l’altro sul gioco d’azzardo e l’ultimo era il compendio. I 16 incontri organizzati dalla Figc li ho fatti in Italia: dopo i primi 6 mesi della squalifica, sono stato a Bari, Roma, Firenze, Milano, Verona. Incontravo i giovani delle squadre e gli staff».
EC: Quali domande le facevano di più?
ST: «Dai ragazzi di 12-13-14 anni le domande sono tipo chi sia il giocatore più forte contro cui hai giocato. Gli adulti ti chiedono i motivi per cui arrivi a fare certi errori. Se da 12enne mi fossi trovato davanti un calciatore gli avrei chiesto mille cose diverse. Nelle scuole calcio volevano conoscere il mio segreto per sfondare e io so che non serve essere solo bravo: a mille ragazzi talentuosi capita di perdersi. Ma non puoi rispondere che il 50% è fortuna: li affosseresti. Devi raccontare le cose belle. Ogni bambino sogna di essere un campione? Sì ma oggi viene massacrato dai genitori: lo portano sul piedistallo come il più forte e avverte la responsabilità di diventare famoso. In più gli allenatori spesso fanno troppo gli allenatori e quando hai 7-8 anni non fa bene. La gente pensa a bambini prodigio che non avranno problemi in futuro. In realtà la somma di tutte queste pressioni fa malissimo».
EC: L’incontro più emozionante?
ST: «A Newcastle, in una fabbrica che produce coperture per i tubi del gas nell’oceano. Ci sono andato perché in Inghilterra il gioco d’azzardo è molto diffuso. Ci è stato chi mi ha detto, a diversi mesi dalla squalifica: “Ho smesso di scommettere per quello che è successo a te”. Erano ludopatici da anni. Un italiano mi ha raccontato che un dipendente guadagna 2000 sterline al mese, ma a volte ha bisogno di fare gli straordinari per mantenere la famiglia: butta troppi soldi nel gioco».
EC: Ora si sente un modello?
ST: «Un ludopatico non ne parla, ma se si sblocca poi riesce a impegnarsi. Parlare è la cosa più difficile. Non riuscirai mai a farti vedere come un perdente, ma l’unico vero aiuto è aprirsi».
EC: Ripensa spesso al passato?
ST: «Mi è capitato di pensare a quando potevo andare all’Inter. Non l’ho mai accettato: non perché non sia una squadra forte, ma non mi reputavo felice al 100%. Ogni giorno se ne parlava. Sentivo il mio procuratore e i dubbi erano grandi. La montagna che non volevo scavalcare. La chiamata di Paolo Maldini ha cambiato tutto, mi ha fatto felice e ho detto: “O vado al Milan o resto al Brescia”. Me l’ha trasmesso mio papà, questo legame col Milan. Facevo colazione con la tazza rossonera di Gattuso e quando si è rotta ho costretto mia mamma a sistemarla pezzettino per pezzettino. Quando il trasferimento si è concretizzato, ho chiesto a Rino il permesso di indossare la sua n° 8».
EC: Da simbolo e potenziale capitano del Milan lei è stato ceduto al Newcastle: non esiste più il calcio delle bandiere.
ST: «È difficile, non puoi decidere da solo. È un mondo con tanti soldi: per i calciatori e per i club. Quando dici no, deve esserci anche quello del club. Nelle trattative è difficile che ci siano due no o due sì: c’è sempre un sì e un no. Nelle grandi squadre, con tanti soldi in ballo, la bandiera diventa un’utopia. Con il mio trasferimento da una parte ho tolto e dall’altra ho dato, aiutando il Milan a tenere il bilancio in attivo».
EC: L’esperienza inglese l’ha arricchita?
ST: «Non solo economicamente. Sono cresciuto e ho scoperto un nuovo Paese, un nuovo calcio e una nuova lingua. Non ho rimorsi. L’idea di tornare al Milan un giorno c’è, ma non è il pensiero quando mi sveglio al mattino».
EC: Secondo Buffon, simbolo della Nazionale, un giocatore italiano preferisce la comfort zone alla rischiosa esperienza all’estero: è la famosa storia dei bamboccioni?
ST: «In Italia si sta bene: sei a casa, hai tutto. Quando sei fuori ti mancano tante cose: cibo, famiglia, amici, mare. Quando le hai, non ci fai caso».
EC: A gennaio si è parlato di un suo rientro in Italia alla Juventus.
ST: «Con i miei procuratori non ne abbiamo mai parlato. E so, per esperienza, che se non arrivi a quel passaggio non c’è nulla di concreto. E comunque qui sto bene con me stesso, ho trovato la mia linea e non è il caso di stravolgerla ancora. Voglio vincere per i tifosi del Newcastle, tra poco avremo la prima occasione a Wembley».
EC: Per gli italiani lei è innanzitutto un calciatore della Nazionale.
ST: «Ne sono orgoglioso, prima della squalifica non avevo un posto ben definito: ero un po’ dentro e un po’ fuori. Ho giocato 21 partite, ma poche da titolare o per intero. Non ero un punto fermo. Ora che sono tornato nei piani del ct Spalletti devo restarci per forza».
EC: Due generazioni di bambini non hanno vissuto l’Italia al Mondiale: fargliela vivere chiuderebbe il cerchio?
ST: «Nel calcio come nella vita pensi sempre che la partita più importante sia la prossima. Ma io so di non poter sbagliare un’altra volta. E in Nazionale i pensieri di tutti noi vanno al Mondiale americano».
EC: Chi è Tonali nella sua seconda vita?
ST: «Uno che riesce a parlare con tutti: con chi ha bisogno di aiuto e con chi non ne ha. Una persona più disponibile e generosa. Non più solo dentro il campo».