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 2025  marzo 02 Domenica calendario

Intervista a Francesco Tullio Altan

Uno potrebbe pensare a uno pseudonimo e invece no: all’anagrafe, Altan si chiama proprio così (Francesco Tullio-Altan, per la precisione). In Friuli è un cognome antico, anche se ormai piuttosto raro. Tanto che quando, più di mezzo secolo fa, pubblicò i suoi primi disegni su Linus, il suo direttore di allora, Oreste Del Buono, era convinto che fosse sudamericano. «Mi ero trasferito in Brasile da un po’ – racconta mentre fuma un toscanello nel suo studio di Aquileia – e pensava che uno con quel cognome non potesse che essere di quelle parti».
Il suo primo viaggio in Sudamerica fu nel 1967.
«Avevo 24 anni. Un amico, che studiava Architettura con me a Venezia, doveva produrre un documentario sulla musica popolare brasiliana. Mi disse: “Partirà una piccola troupe. Sono in tre, se vuoi andare anche tu…”. Risposi: “Volentieri, ma non so fare niente”. Partii».
Che faceva?
«Di tutto. All’inizio accompagnavo un funzionario all’aeroporto di Rio che, per sdoganare le “pizze” dei film in arrivo da Roma, passava i soldi piegati fra le dita agli agenti. Un giorno si assentò e toccò a me: i doganieri mi guardavano aspettando che facessi qualcosa; alla fine, impacciatissimo, mollai i soldi lì. Fu un disastro».
In Brasile conobbe sua moglie Mara.
«Durante il secondo viaggio, nell’estate del ’70: ero lì per un altro film, stavolta con l’incarico di scenografo, lei faceva la costumista. Il resto della troupe tornò in Italia, io restai.
Dopo un po’ nacque mia figlia».
Disegnava?
«Lavoravo già per qualche giornale locale ma – avendo solo il visto turistico – ero di fatto un clandestino. Un cartonista brasiliano, Miguel Paiva, mi parlò di un agente argentino che viveva a Milano, Marcelo Ravoni. Lo incontrai, gli mostrai le mie cose, mi portò a Linus».
E lì conobbe Del Buono. Che tipo era?
«Intelligente, acuto, con un gran senso dell’umorismo. Però era cattivissimo: non aveva paura di parlare male di qualcuno se non gli andava a genio».
All’esordio le pubblicò trenta vignette: solo movimenti coreografici, nessun testo. Quando decise di aggiungerlo?
«Avevo già iniziato a fare qualcosa di scritto e disegnato, ma a praticarlo nel modo in cui avrei continuato per mezzo secolo mi spinse la lettura di Jules Feiffer. Le sue strisce furono una folgorazione: più che tra di loro, i suoi personaggi sembravano dialogare con chi le leggeva».
Ma conta di più il testo o il disegno?
«Il testo. All’inizio facevo dei disegni e mi chiedevo cosa potesse dire quel personaggio con quella faccia lì. Oggi no: parto dalle parole, poi faccio un casting per scegliere chi le deve dire».
Il suo battesimo su Linus fu nel 1973: due anni dopo sarebbe nata la Pimpa.
«Nacque per caso, disegnando con mia figlia in un pomeriggio milanese. Scrissi una prima storiella, la mostrai al mio agente, la portò al Corriere dei piccoli, piacque. Mi chiesero subito di collaborare».
A luglio Pimpa compie 50 anni. Le sue storie, pubblicate ancora oggi da Franco Cosimo Panini, sono ormai lette da tre generazioni. Il suo elisir?
«La lentezza, in un mondo che va sempre più di fretta. Sarà anche per questo che i suoi lettori – che un tempo erano piccoli – oggi sono diventati piccolissimi».
E infatti Pimpa, per quanto sia nata a Milano, di milanese non sembra avere niente.
«Né di Milano né di nessun altro posto. Ha un mondo tutto suo che si è portato dietro lei».
Da dove arriva?
«Ci ho pensato spesso, l’unico riferimento che ho trovato sono i “libri di Susanna” di Colette Rosselli, letti da piccolissimo. Quando, molti anni dopo, li ho rivisti, mi sono reso conto che i suoi colori erano un po’ gli stessi miei».
Nelle storie di Pimpa non ci sono mai scontri.
«Non è nelle mie corde. A me il suo mondo piace così: armonico, pieno di avventure mai pericolose. Quando sono con lei sto tranquillo, il problema è tornare qui».
Nessun punto di contatto con le sue vignette?
«Uno solo, forse: i finali. Le storie di Pimpa sono per i piccini, dunque vanno lette più volte. Per questo inserisco sempre una battuta o un piccolo scherzetto finale, che è un po’ una strizzata d’occhio alle mamma e ai papà costretti a leggerle e rileggerle».
Pimpa ha la stessa età di Cipputi, il metalmeccanico con tuta, berretto e sigaretta che compare in molte sue vignette. Anche lui del ’76, anche lui nato a Milano.
«Lui sì che credo di averlo visto in città: su un tram, forse, o da qualche altra parte. E difatti, negli anni, soprattutto alle feste dell’Unità, ne ho trovati diversi che mi dicevano: “Guardi che quello sono io!”. Uno di loro, peraltro, gli somigliava anche».
Ha disegnato pochi politici: ieri Andreotti, Craxi e Berlusconi, oggi Meloni e Salvini. Tutti gli altri no. Come mai?
«Non è il tipo di cose che amo, mi piacciono di più le persone comuni».

Il suo ombrello, da anni, è diventato sinonimo di una fregatura.
«Lo disegnai per la prima volta nel 1987, durante una crisi di governo, quando Francesco Cossiga conferì un incarico esplorativo alla presidente della Camera di allora, Nilde Iotti. C’era un tipo piegato in avanti che diceva: “Che intenzioni ha?”. E, subito dietro, un altro che, impugnando un ombrello, rispondeva: “Non si scaldi, è solo un incarico esplorativo”. Funzionò».
Qual è il segreto di una buona vignetta?
«L’ambiguità. Mai spiegare e soprattutto mai esplicitare, e questo significa anche dare la possibilità di interpretare ciò che si legge in modi diversi».
Le è capitato?
«Più volte qualcuno mi ha fermato raccontandomi tutto divertito il suo senso di una vignetta: aveva capito l’esatto opposto di ciò che volevo dire. Ma va bene comunque, fa parte della vita».
Racconta gli italiani da mezzo secolo. Qual è il nostro difetto più grave?
«La mancanza di senso dello Stato: da sempre, la famiglia conta di più dell’intera comunità».

Oggi destra e sinistra sono concetti superati, come diceva uno dei suoi personaggi qualche anno fa?
«La sinistra forse sì, la destra no. Anzi, sembra che ci sia solo lei adesso».
Sempre in quella vignetta si chiedeva se anche «sopra» e «sotto» fossero due categorie scadute.
«Quelle credo contengano ancora un po’ di verità, come ricchezza e povertà. Certo, sarebbe meglio che chi sta sopra stesse un po’ più giù e chi sta sotto un po’ più su. Ma, a quanto pare, la tendenza di oggi è opposta».
Che rapporto ha col tempo che passa?
«Tento di far finta che non passi».

Ci riesce?
«Provando ad anticipare un po’ i miei limiti».
E come?
«Se oggi cammino un chilometro, domani faccio novecento metri. Così non mi accorgo che mi stanco».