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 2025  marzo 02 Domenica calendario

L’ultima dimora del Gattopardo

A tenere sulle spalle il carico della memoria è rimasta lei, la duchessa Nicoletta Lanza Tomasi, vedova del figlio adottivo dello scrittore che, come nessuno, ha segnato l’immaginario sulla Sicilia con il suo Il Gattopardo. E adesso che la serie Netflix porterà la storia raccontata in quel romanzo-capolavoro in quasi duecento Paesi del mondo, non c’è niente di più illuminante che risalire la corrente e andare nel Palazzo dove tutto è cominciato, dove il libro fu concepito e dove è custodito il manoscritto con il celebre incipit: «Nunc et in hora mortis nostrae. Amen».
Lei, Nicoletta, veneziana di nascita, poliglotta, studiosa e curatrice delle opere di Tomasi dopo un passato da interprete e organizzatrice di festival musicali, sorride con la stessa colta ironia che era del marito, il musicologo Gioacchino Lanza Tomasi, scomparso a 89 anni nel 2023. «La serie? Ho deciso di vederla – dice – anche se mi ha colpito leggere che Kim Rossi Stuart si vantava di non avere letto il romanzo e di non aver visto il film di Luchino Visconti che vinse la Palma d’oro a Cannes. Spero servirà a tenere accesi i riflettori su un romanzo straordinario, già amato e letto in tutto il mondo, e su questa dimora che curo con grande impegno e che ho deciso di aprire anche alle scuole come luogo di cultura vivente».
L’idea è di trasferire ai giovani la conoscenza di un romanzo che gran parte della critica ha visto come metafora dell’irredimibilità dell’Isola, manifesto del trasformismo e dell’opportunismo. L’affresco degli aristocratici siciliani pronti a passare dai Borboni a Garibaldi in pochi giri di valzer e qualche tocco di cipria pur di mantenere il proprio posto al sole. Pronti a sdoganare la nuova imprenditoria rapace e ignorante pur di salire sul carro dei nuovi vincitori. L’autobiografia di un popolo, se davvero i siciliani sono un popolo (e un popolo di Dèi, come dice amaramente il principe di Salina in una dei passaggi più celebri). La metafora del Paese, forse.
Romanzo che, secondo il figlio adottivo (e lontano cugino) dello scrittore, aveva tutt’altra morale. «Il Gattopardo non è stato capito – diceva Lanza Tomasi – in realtà è il romanzo della speranza, della Sicilia che cresce e che cambia. Il principe di Salina, morendo, riconosce di avere perduto. Così come mio padre adottivo aveva perduto: era un uomo deluso, amareggiato, ultimo erede di una famiglia decaduta. Consapevole che se tu non cambi, ti cambieranno gli altri, e che se non si cambia si è fritti perché la società è mobile. La famosa battuta del cambiare per non cambiare è pronunciata da un personaggio minore, il nipote Tancredi. Se fosse la morale del romanzo, Lampedusa l’avrebbe fatta pronunciare al principe».
Emoziona, oggi, visitare questa dimora dove il principe scrittore visse gli ultimi anni della sua vita, quelli della decadenza economica, della vana attesa della pubblicazione del romanzo (rifiutato da Mondadori e da Einaudi), dell’insorgere della malattia che lo avrebbe ucciso nel luglio 1957, un anno prima che il libro, edito da Feltrinelli, ottenesse un immediato, enorme successo.
Adesso la duchessa sta lavorando al prezioso carteggio inedito tra lo scrittore e la moglie, la psicoanalista Alexandra Wolff Stomersee detta Licy, «sono fogli in francese che lei gli raccomandava di bruciare perché la detestata suocera non li leggesse, ma che in parte invece si sono conservati».
Sono note invece le ultime tre lettere che il principe scrittore lasciò alla moglie e a Gioacchino prima di morire. «Raccomandava di darsi da fare per pubblicare il libro, ma non a spese della famiglia, lo riteneva umiliante. Viveva senza più un soldo, accampato in questa casa che definiva ironicamente straordinaria perché, diceva, “l’acqua non manca mai, ma non esce dai rubinetti, cade dai tetti”. Io l’ho vista, questa dimora prima del restauro, mi è rimasta impressa la fila lunghissima di bottiglie poggiate a terra nella cucina lurida, Licy le usava appunto perché non c’era acqua corrente».
Difficile da immaginare quei tempi, adesso che questi saloni sono sontuosi, restaurati in trent’anni di vita da Gioacchino Lanza Tomasi, che ha raccolto gli arredi provenienti da Palazzo Lampedusa, la dimora di famiglia dello scrittore distrutta dai bombardamenti, «un trauma che non superò mai» e dal Palazzo di Santa Margherita Belìce, la residenza estiva dei Filangeri di Cutò, il ramo materno di Tomasi.
Da Palazzo Lampedusa proviene la biblioteca di seimila volumi. «Mio marito diceva che è una leggenda che avesse scritto il romanzo in biblioteca – racconta Nicoletta – una leggenda alimentata dalla moglie, che lo spingeva a mantenere comportamenti da aristocratico, anche quando i due non potevano più organizzare ricevimenti e si limitavano a offrire un tè alla settimana a una decina di ospiti, aiutati da un solo vecchio cameriere. Il libro in realtà l’ha scritto al caffè Mazzara, dove andava di buon mattino, a piedi, dopo avere comprato i giornali, con il suo bastone, fumando una sigaretta dopo l’altra».
Ma in quel palazzo mezzo diroccato, coi pavimenti usurati e gli infissi rotti, il principe decaduto impartiva lezioni di letteratura a tre giovani: Gioacchino, che poi avrebbe adottato; Francesco Orlando, futuro critico letterario; Francesco Agnello, futuro musicologo. Provava a fare respirare loro quell’Europa che lui aveva girato da ragazzo, con la madre amatissima Beatrice Tasca Filangeri Cutò dal cui abbraccio mai riuscirà a liberarsi, quella madre che scrivendogli lo nominò sempre al femminile. Provava a cambiare, perché qualcosa cambiasse.