il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2025
L’ultima riunione del governo M.
I primi novanta giorni dell’anno 1945 – gennaio, febbraio e marzo, ottant’anni fa, nel pieno della guerra più sanguinosa nella storia del mondo – hanno conquistato la singolare fama di “mesi irripetibili” (probabilmente in tutta Europa, e indiscutibilmente in Italia).
Eppure la Germania, che aveva scatenato il conflitto mondiale, con milioni di morti, era apparentemente ancora in piedi. Milioni di tedeschi erano seppelliti nei paesi da loro conquistati, le antiche città erano divenute macerie sotto i bombardamenti anglo-americani. I soldati della Russia, già invasa e semi-distrutta, bussavano ormai alla porta. I complici di Adolf Hitler nelle altre nazioni erano praticamente evaporati. La Spagna era fascista, ma non si dichiarava hitleriana. La Francia era stata quasi tutta liberata dagli americani venuti dal mare. Ma l’uomo del Mein kampf – come hanno riferito i capi militari rimastigli fedeli – ancora vaneggiava su una “vittoria a portata di mano”.
Quando l’esercito sovietico aveva scatenato, il 23 marzo, la grande battaglia per la liberazione di Vienna (fra le potenze alleate c’era un accordo per non accelerare la presa di Berlino), Hitler aveva diffuso il suo allucinato programma finale: “Ordino di distruggere tutti gli stabilimenti militari, le vie di comunicazione, le installazioni industriali e ogni cosa di valore nel Reich, che possa essere usata oggi o nel futuro dal nemico”. Poche settimane dopo, in un comunicato congiunto tripartito, Londra, Washington e Mosca annunciavano l’incontro tra i loro soldati a Torgau sull’Elba.
In questa atmosfera di morte e di follie, di speranze indicibili ma a portata di mano, e nello stesso tempo di paura, vivevano gli italiani in quegli ultimi giorni di guerra. Di più: in mezza Italia, dall’Emilia in giù, Roma compresa, da molti mesi o anche solo da qualche settimana, c’era la pace, che significava mangiare poco, ma anche cercare un lavoro, maneggiare soldi e persino andare al cinema. Nei teatri della Capitale si recitavano Un marito ideale di Oscar Wilde, Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello e tutti i lavori di Dumas figlio; e si esibivano, a singhiozzo, compagnie di alto livello: Ruggero Ruggeri, Elsa Merlini, Cervi, Morelli, Stoppa, Pagnani. E poi Wanda Osiris, Rascel, Fabrizi, Dapporto. Gli sketch di Macario erano scritti (“fra un mezzo digiuno e l’altro”, si lamentava lui) da Federico Fellini. E i romani, dopo avere combattuto contro i nazisti che nel settembre del ’43 avevano occupato sanguinosamente la città, e dopo aver subito massacri come alle Fosse Ardeatine, partecipavano adesso a una lotta politica, per un futuro di libertà, sorda e aggrovigliata. I capi del governo italiano (con sede a Caserta), nominati dal re, erano stati per ora Badoglio e Bonomi; poi sarebbe toccato, per un breve periodo, a Ferruccio Parri.
Da Roma – la Capitale occupata l’8 settembre 1943 dai nazisti coll’ingannevole nome di “Città aperta” – gli hitleriani erano scappati verso il Nord nel giugno del 1944 e avevano messo radici in tutta l’Italia Centro-Settentrionale, mentre il governo provvisorio antifascista si era insediato prima a Brindisi, poi a Caserta (dove risiedeva il re). E i partigiani si organizzavano in decine di centri urbani, e soprattutto su colline e montagne.
Mussolini e i suoi avevano dato vita nel Nord a un nuovo governo “provvisorio”, che comandava i territori italiani – definiti “Repubblica sociale” – dal Lago di Garda. Quella che la Storia ha poi definito “Resistenza antifascista” era basata su un complesso di squadre di civili armati – dalle 150 alle 200 mila persone, è stato calcolato – divise in gruppi organizzati nelle singole località e regioni del Centro-Nord. La Resistenza italiana – c’erano scuole, improvvisati dormitori, maestri di letture e di armi, preti e monache – è stata oggetto, negli ultimi ottant’anni, di sterminati e spesso bellissimi racconti. Ci limiteremo, qui di seguito, a guardarla da un altro punto di vista, quello della narrazione, incattivita e propagandistica – non sappiamo quanto fedele al vero – fattane dagli osservatori militari fascisti, col compito di informare i capi mussoliniani. Un pacco di appunti è stato rintracciato da uno storico del fascismo, Renzo De Felice. Naturalmente, i partigiani sono qui regolarmente definiti “banditi”. Ecco alcuni esempi:
– “Forza dei banditi sempre crescente dall’ottobre 1943 all’ottobre 1944, passante da 23 mila uomini a 111.000 con un aumento medio mensile di 7.400 uomini”.
– “L’organizzazione banditistica è stata sempre in crisi per quanto riguarda la parte logistica, talché ha dovuto dedicare circa 2/4 della sua attività al procacciamento dei mezzi di vita e di lotta”.
– “I focolai principali del banditismo alla fine di luglio erano rappresentati da: Piemonte-Liguria, con 53.000 banditi (50% circa del totale); Venezia-Giulia, con 20.000 banditi; Emilia-Toscana, con 19.000 banditi”.
– “Il numero dei banditi è qui andato sempre aumentando dall’8 settembre 1943 ed è passato da 5.000 a 111.000”.
– “Mole totale dell’attività anti-banditi: risultano in totale effettuate (in otto mesi) 3.061 operazioni di rastrellamento durante le quali sono state inflitte al banditismo 42.679 perdite”.
All’inizio dell’anno 1945 il gruppo dirigente fascista, a partire da Mussolini, era ormai convinto che la partita era perduta. Lo scatenato Prefetto di Novara, Vezzalini, aveva ordinato: “Tutti i congiunti maschi, dell’età dai 15 ai 60 anni, di renitenti e banditi, siano tratti in arresto e assegnati al campo di concentramento di Novara”. Ma nessuno aveva obbedito. L’ultimo guizzo d’orgoglio dell’ex duce – ora a capo di un governo che praticamente non aveva più potere – era stato, a metà dicembre, il comizio al Lirico di Milano, che aveva radunato in piazza – si scrisse – più di diecimila fascisti, a poco più di vent’anni dalla Marcia su Roma. Mussolini aveva ancora seguaci (era Buffarini Guidi, ministro dell’Interno, il più odiato della Repubblica di Salò), ma il suo era stato a Milano il comizio di uno sconfitto: “Noi vogliamo difendere con le unghie e con i denti la valle del Po, noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana”. Il 22 marzo 1945, in pieno Consiglio dei ministri (l’ultimo), l’ex duce aveva addirittura ufficialmente proposto agli stupefatti dirigenti fascisti, con un guizzo alla Carlo Marx, “la socializzazione delle imprese con almeno 100 dipendenti e un milione di capitale”. In realtà, l’uomo era così consapevole del disastro da aver provveduto a organizzare, prima della fine, i suoi cospicui affari familiari. La transazione più lucrosa era stata, quel giorno, la vendita del Popolo d’Italia (da sempre di sua proprietà). Il danaroso acquirente del quotidiano fascista, l’industriale Cella, si era impegnato a pagare tutti i debiti, assommanti a 34.923.000 lire. Secondo lo studioso Franco Bandini, Mussolini aveva preteso che “i 75 milioni della transazione fossero pagati in franchi svizzeri”.
C’era ancora, tra i fascisti, chi predicava la riscossa e la vendetta. Il prefetto di Torino, Grazioli, a metà febbraio aveva stampato il suo sanguinario proclama anti-partigiano: “I terroristi catturati siano eliminati tempestivamente… ai sicari dobbiamo dare del piombo senza impacci”. Ma una Brigata nera spedita ad attaccare la questura si era squagliata prima di dare l’assalto. Mussolini, abituato al ruolo incontrastato di capo, aveva chiesto a Milano al cardinale Schuster un finale dignitoso: “Disarmo dei partigiani prima di quello dei fascisti”. La pronta risposta era arrivata addirittura dalla Santa Sede di Roma: “Alleati non intendono entrare in trattative ed esigono la resa senza condizione”.