Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  marzo 01 Sabato calendario

Intervista a Dario Brunori

Con un uomo che declama in versi i soprusi dell’anagrafe: «La mia età non è questa/è almeno la metà», che non applica la razionalità a ciò che non si può spiegare: «Io del mondo non ho capito niente» e che, arrivato a 47 anni, è sbarcato a Sanremo per la prima volta e, in attesa di partire per un tour che da marzo lo vedrà in mare per mesi, ha issato la propria bandiera al terzo posto, si può discutere di tutto.
Dario Brunori, discutere le piace?
«Sono caratterialmente poco incline all’attrito e allo scontro, per indole tendo a sfuggire alla discussione e mi considero un grande mediatore».

È un bene?
«È un male. Quando parlo con i cantanti delle generazioni passate li sento lamentarsi della nostra tendenza al darci continuamente e reciprocamente pacche sulle spalle. C’è stato un tempo di dissidi fecondi tra artisti, pubblico e giornalisti e oggi quell’epoca pare tramontata. È un peccato perché scontrarsi è interessante e rappresenta un grande arricchimento».

Il poeta Franco Arminio sostiene che essere rivoluzionari significhi dare valore al silenzio, alla fragilità e alla dolcezza.
«Franco Arminio è un mio amico fraterno, ma ogni tanto amiamo provocarci e giochiamo a pungerci e scontrarci anche in pubblico. È la mia possibilità di riscatto dalla mediazione di cui le parlavo, Franco. In questo caso però sottoscrivo ogni parola. Arminio suggerisce anche quanto sia utile togliere più che aggiungere e in questo si avvicina a Tondelli che sosteneva che la differenza fra la letteratura e l’intuizione iniziale fosse proprio nel lavoro che si fa nel mezzo. Molto spesso si tratta di sottrazione».

Proprio come lei, Tondelli alternava isolamento e incontri. In agosto, scrive, avverti la solitudine, ma «esser soli fa molto più male in mezzo alla gente».
«Ho avuto spesso la tentazione del ritiro perché vengo dalla Calabria, una terra che era un avamposto di eremiti. Per tanto tempo ho sofferto la contraddizione tra il voler restare a vivere lì, dove osservo e non sono osservato e dove sono Dario Brunori e non il cantante e andare altrove».

Cosa la faceva soffrire?
«Mi sembrava di non aver operato una scelta netta, di essere in un limbo con un piede di qua e uno di là. Da un lato le mie radici, dall’altro la città dove, ha ragione Tondelli, essere anonimi è una condizione naturale».

Come ha risolto la contraddizione?
«Scoprendo che rimanere a metà strada tra i due mondi è la mia vera natura. Faccio un lavoro che per fortuna mi costringe al contatto con gli altri e mi trascina fuori dalle mie mura immaginarie».

Allegria e malinconia nelle sue canzoni convivono.
«Immaginare che la vita sia solo divertimento mi pare una forzatura, così come mi sembra sciocco pretendere di tenere ombre e lati oscuri ai margini della propria esistenza perché intristirebbero. È più mesta un’oasi di finto divertimento rispetto all’idea che questi contrasti esistano: pensare che non ci siano è inumano».

A lei le canzoni tristi piacevano?
«Da ragazzo non solo non mi deprimevano, ma rappresentavano un ristoro. Mi facevano sentire meno solo e mi sussurravano: “Vedi, è la prova che non sei l’unico a provare certi sentimenti”. Ascoltarle equivaleva a stare in compagnia».

«Scrivo canzoni poco intelligenti/che le capisci subito/ non appena le senti». Il verso è suo.
«Ho sempre amato, magari anche vigliaccamente, ridere di me stesso. Mi pareva di alleggerire il fardello che ognuno di noi porta su di sé. La distinzione tra canzone impegnata e leggera non mi ha mai entusiasmato. Persino una canzone estiva, se segui un rigore ed elimini gli ammiccamenti, può rivelarsi impegnata o addirittura “politica”».

Secondo lei cosa rende una canzone riuscita?
«Ci si specchia nelle canzoni quando sono autentiche, quando non ti ingannano, quando ascoltandole vanno a toccare qualcosa che hai provato davvero. Non è un’operazione che si può fare a tavolino, a patto che chi scrive si sottragga alla tentazione di essere pigro e giocare su territori semplici».
Di lei dicono che sia pigrissimo.
«È vero che faccio passare molto tempo tra un disco e l’altro e non considero l’ozio il padre dei vizi, però se posso rubare le parole di Jerome K. Jerome io non sono pigro, sono ozioso».
Che bambino è stato?
«Un bambino timido con il maglioncino e la maglietta chiusa all’ultimo bottone, un ragazzino che si permetteva il sacrilegio di non eccellere nel calcio, che amava l’heavy metal, suonava i Megadeth e imbracciando la chitarra, al posto dei capelli lunghi, si presentava fresco di barbiere, con la camicia stirata, mentre mia madre con il borotalco veniva a controllare se la schiena sudasse. Per strada, quando non mi piegavo al dialetto, i coetanei mi canzonavano: “Brunò, nun fa tanto ‘u filosofo”. Accadeva ai tempi delle scuole medie perché per non escludere mio padre, che era originario di Imola, a casa mia si parlava più l’italiano del calabrese».
Cosa ha rappresentato la timidezza?
«Uno scoglio da superare, una difficoltà emotiva di fronte al quale, con tormenti indicibili, cercare una reazione. Sapevo che se mi ci fossi crogiolato, mi sarei negato il bello della vita. La chitarra e la musica sono stati il mio elemento di conciliazione con il mondo, la mia possibilità di provare a preservare un’identità».
Quando ha capito che avrebbe potuto scrivere canzoni?
«Tardissimo. Mi domandano: “Quando hai capito che volevi fare il cantante?” e non so cosa rispondere perché non l’ho mai capito. Sono accadute una serie di cose, tutto qui. Chiunque mi abbia conosciuto prima del mio disco d’esordio sapeva che nutrivo passione per la musica, ma non avrebbe mai sospettato che covassi un certo tipo di pathos perché io, nella vita, appaio diverso da quello che scrivo. Non è un caso che sul palco mi senta libero. È il luogo in cui mi autorizzo a diventare qualcosa di diverso da ciò che sono. Nel mio condominio abitano molte possibili versioni di me stesso».
Una di queste versioni decise di spostarsi a Siena per iscriversi all’università.
«Il mio destino sarebbe stato quello di lavorare nella Brunori Sas, società in accomandita semplice che occupandosi di laterizi e mattoni, si era insediata in Calabria grazie al lavoro di mio padre fin dagli anni ‘50. Di vendere mattoni, non avevo nessuna intenzione. L’università era un pretesto, a Siena arrivai per la musica perché volevo iscrivermi alla Lizard, la scuola di Giacomo Castellano, un bravo chitarrista rock che insegnava a Fiesole. I miei dissero che a Firenze però non conoscevano nessuno e a Siena abitavano invece alcuni amici di famiglia e io, che vivevo la mia passione alla stregua di una colpa, come sempre non mi ribellai. A Siena provai a entrare a Scienze delle Comunicazioni: il posto ideale per studiare poco e cavarmela, da vero impostore, con il solo eloquio. Feci il test e mi bocciarono brutalmente. Allora, con l’idea di riprovarci l’anno dopo, scelsi Economia e Commercio. Poi trovai qualche amico, mi dimenticai dei miei propositi e con grande pena continuai ad applicarmi sull’Economia».
Perché con grande pena?
«Perché non ne potevo più e non era il mio ambito. Pensavo: “se supero questa prova, nella vita potrò fare di tutto”. Ad un certo punto, per gente come me, palesemente inadeguata, crearono la possibilità di presentare una tesina: una specie di rottamazione delle cartelle esattoriali. Si prendevano meno punti, è vero, ma finalmente si sanava definitivamente il debito con l’istruzione. Credo che la mia tesi possa ambire al premio per l’elaborato più sintetico d’Italia. Era talmente striminzita che i miei, pensando ad una truffa, ne controllarono la veridicità».
Su cos’era?
«Sul disgraziato caso del povero signor Armani, un architetto che aveva creato un dominio internet, armani.it e sulla reazione legale del gruppo Giorgio Armani che ne discuteva la legittimità».
In quegli anni come si manteneva?
«Un po’ con la generosità dei miei e un po’ facendo musiche per i cartoni animati: Arturo il kiwi o Gino il pollo, cose di cui sono molto fiero, i primi tentativi di crossover tra internet e televisione e i primi contenuti più o meno virali in rete: parliamo del 2005, la preistoria. C’era Gino talebano, il pollo che prendeva in giro Osama Bin Laden e il pennuto che grazie anche a quel geniaccio di Andrea Zingoni dei Giovanotti mondani meccanici cantava cose come: “Sono Gino e te lo dico /sono un pollo troppo figo”».
Che rapporto c’era tra musica e computer agli albori?
«A svegliarmi sul tema fu mio fratello Alessandro che da nerd patentato mi aveva acceso una spia: “guarda che con il computer tu puoi produrre musica”. Inizialmente, con snobismo da ignorante, nicchiai: “non voglio fare il piano bar”. Poi capii che lavorare con il computer non significava fare soltanto musica elettronica, ma che si poteva registrare un disco. Fu allora, stringendo contatti e sinergie, che cominciai a fare il musicista di mestiere».
Guadagnava?
«Poco. Erano ingaggi estemporanei e mio padre a un certo punto si fece sentire: “hai preso una laurea, la musica la puoi fare anche dalla Calabria, torna subito qui”. Non si spiegava perché non volessi, anche solo per emanciparmi economicamente, prendere in mano l’attività di famiglia. In effetti con la laurea non avrei mai lavorato anche perché proprio come oggi, i laureati erano considerati dei rompicoglioni e le aziende preferivano i diplomati: meno diritti, meno noie».
Tornò in Calabria?
«Resistetti e attraverso un’agenzia interinale, trovai un impiego da parcheggiatore. Volevo, proprio come Kevin Spacey in un suo film, un impiego che avesse il minor cumulo di responsabilità possibili. Mi proposero quello e io romanticamente chiesi il turno di notte, 24-7: mi pareva un sogno: Avrei visto film, letto libri, suonato, persino. Ero pieno d’ottimismo».
Ben speso?
«Il lavoro si rivelò una tragedia: sarò stato felice 3 giorni in tutto, i primi. Avevo scambiato la notte con il giorno e i due occhi da zombi che portavo in giro erano lì a dimostrarlo. Eppure, dopo aver trottato per un anno e mezzo, stavo facendo carriera. Proprio quando mi avevano appena nominato supervisore alla Siena parcheggi ricevetti da mia zia la telefonata che mi cambiò la vita. “Papà non sta bene” disse e io capii subito che era morto».
Da cosa lo capì?
«Certi distacchi li avverti a prescindere. Nonostante mia madre fosse l’ultima di 12 figli e quindi la perdita, in famiglia, non fosse un’esperienza sconosciuta, sono stato sempre un po’ naïf e non ho mai pensato veramente alla morte. La scomparsa di mio padre fu uno shock e mi spostò da una condizione ad un’altra in maniera molto dolorosa. Mi fece prendere consapevolezza di tante cose, a iniziare dal tempo. Non potevo più perderne e non potevo più rimandare perché procrastinare, fino ad allora, era sempre stato il mio primo comandamento. Al principio, per senso di colpa, feci quel che babbo avrebbe desiderato. Presi in mano le redini dell’azienda e mi ritrovai a parlare con persone che mi chiamavano Bruno, il nome di mio padre. Dirlo è forte e forse non suona neanche bene, ma quel lutto fu un balsamo: mi aiutò a crescere e a definirmi e mi insegnò a metabolizzare il dolore attraverso la parola e il canto».
È un processo che continua anche oggi?
«Non si è mai interrotto e anche adesso che sono tranquillo, che ho raggiunto una certa serenità, che posso toccare la gioia per il piccolo successo ottenuto, conservo una tensione che non dà spazio solo alle luci, ma si sforza di non dimenticare le ombre».
A suo padre pensa spesso?
«Ci sono momenti in cui penso di dirgli una cosa infantile e mi commuovo: “Babbo, lo vedi, sono riuscito a fare il musicista. Sei fiero di me?”. Papà se ne è andato presto e ha condotto un’esistenza libera e intensa. Non sono un grande amante della vita lunga e preferisco di gran lunga quella larga, ma certo un po’ di più su questa terra avrei voluto rimanesse».
Quando suo padre arrivò a sud, la Calabria era molto diversa.
«Non avrebbe mai immaginato che in Italia potesse esserci quell’arretratezza. La gente stava nelle case di paglia e fango, il latifondo imperava, c’era lo ius primae noctis e ai contadini, trattati come schiavi, in epoche non lontane veniva richiesta la tassa sull’ombra e sull’acqua piovana. Sembra uno scherzo: era la realtà. Mio padre ci piombò a 18 anni. Invece di fuggire si ambientò in fretta, si innamorò della gente e anche per l’ebrezza che si prova solo a quell’età, in breve si sentì un reuccio. L’emigrazione al contrario di questa famiglia, che mentre i calabresi si spostavano a nord decise di andare in direzione ostinata e contraria, vale un romanzo. Un giorno lo scriverò».
Mentre pensa al romanzo continua a scrivere canzoni. Ascoltandola non si ha mai l’impressione di una costruzione del consenso. «Quindi ci è cascato anche lei. Questo non fa altro che confermare che sono bravissimo a imbrogliare. Mi scusi, ma io per la battuta mi farei uccidere. Se torno serio le dico che la verità è che non mi sono mai abbandonato all’idea di essere un autore di canzoni e ancora non riesco non solo a dirlo, ma a crederci».
Lei scrive: «Te ne sei accorto, sì/ che parti per scalare le montagne/ e poi ti fermi al primo ristorante/ e non ci pensi più». Pensa ancora di essersi fermato al primo ristorante?
«Non riesco mai a giudicarmi con onestà, ma so che l’unica cosa che conti, se fai l’artista, è cercare di avere le palle per fare quello che ti pare. Le canzoni sono belle anche perché funzionano da promemoria: ti ricordano chi sei».
Dario Brunori ce l’ha fatta?
«In assoluto credo non ce la possa mai la possa fare nessuno e se ce l’ho fatta, io non lo so. In uno sforzo di insano ottimismo potrei dire che ce la sto facendo e che il gerundio mi rassicura. Mi piace vivere in una sorta di altalena in cui continuo a muovermi e non do niente per scontato. Forse è moralismo o forse l’educazione cattolica che ho ricevuto, ma almeno l’ho fatta finita con la megalomania della coerenza a tutti i costi e ho smesso di considerarmi un santo. Per continuare a ondeggiare mi sembra un ottimo punto di partenza».