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 2025  marzo 01 Sabato calendario

L’attacco di Trump a Zelensky, la Cina sorride alla “gara di urla”. Così Xi ha vinto la scommessa

"Una gara di urla”. I media cinesi descrivono così il durissimo confronto andato in scena alla Casa Bianca tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky. I resoconti puntano tutti sulla “rarità” e “drammaticità” di un episodio che “mette a nudo le profonde divergenze tra Stati Uniti e Ucraina riguardo alla risoluzione della crisi in corso”. E l’incidente, scrive il tabloid nazionalista Global Times, «ha inoltre dimostrato all’amministrazione Trump che porre fine alla crisi potrebbe essere più impegnativo di quanto inizialmente previsto». È proprio su queste divergenze che la Cina ha sempre scommesso, mantenendo sin dal febbraio 2022 sostanzialmente inalterata la sua posizione sulla guerra in Ucraina, con la fiducia che la stanchezza del fronte occidentale avrebbe finito per portare molti a “sposare” la sua richiesta di “soluzione politica” fondata sui principi di “integrità territoriale” e rispetto delle “legittime preoccupazioni di sicurezza di tutte le parti”. Due principi difficilmente conciliabili sulla guerra in Ucraina, visto peraltro che Pechino ha sempre appoggiato la visione anti Nato e anti americana di Mosca. Proprio per questo Xi Jinping si è sempre tenuto lontano dal possibile ruolo di mediatore, nonostante si sia spesso pensato il contrario.
Il governo cinese non commenta, come da prassi. Anzi, a livello ufficiale sarà incline ad appoggiare gli sforzi di Trump nel trovare una soluzione politica al conflitto. Ma, in realtà, l’umiliazione di Zelensky in mondovisione è uno spettacolo che difficilmente poteva essere migliore dalla prospettiva di Pechino, che pensava sì a qualche sfilacciamento tra Washington, Kiev e l’Europa, ma poteva certo ipotizzare un abbandono urlato e a favore di telecamera dai tratti grotteschi e persino inquietanti. L’episodio, da una prospettiva cinese, dimostra il disfacimento dell’affidabilità degli Stati Uniti, così come dell’alleanza tra democrazie a guida americana che era stata rinsaldata da Joe Biden. Lo show della Casa Bianca dà una clamorosa spinta narrativa a favore di Pechino, tanto che sui social del gigante asiatico c’è persino che descrive Trump come “il miglior ambasciatore della Cina”. Quanto accade sull’Ucraina è infatti un perfetto monito che Xi Jinping può sbandierare ai vicini asiatici, paventando l’inaffidabilità degli Usa. Il messaggio, implicito o esplicito, è piuttosto chiaro: «Vi armeranno ma poi vi abbandoneranno come hanno fatto con l’Afghanistan prima e ora con l’Ucraina». Tra i primi destinatari c’è Taiwan, che osserva con sgomento il trattamento riservato a Zelensky e immagina un futuro piuttosto fosco, proprio mentre Pechino alza i toni della retorica sulla “riunificazione” approfittando dell’improvvisa ritirata globale degli Usa. Ma attenzione anche a Corea del Sud, Giappone e Filippine, che negli ultimi anni si erano enormemente avvicinati a Washington e che ora sono (per usare un eufemismo) scettici sull’impegno e la stabilità americana. Tanto che in molti prevedono un rafforzamento delle voci di chi, tra Seul e Tokyo, chiede lo sviluppo di armi nucleari autoctone o la creazione di una sorta di Nato asiatica per ridurre la dipendenza dall’assistenza americana.
La Cina, intanto, sorride. La teoria del disgelo con Mosca per isolare Pechino pare più che altro una fantasia. All’epoca, Kissinger e Nixon sfruttarono le divisioni già in essere tra Pechino e Mosca, persino coinvolte in scontri al confine. Stavolta, Washington dovrebbe rompere l’allineamento tra due potenze che condividono molte prospettive sull’ordine globale. Senza contare che è la Cina a essere più integrata all’economia occidentale rispetto alla Russia, che ha invece accresciuto la sua dipendenza nei confronti di Pechino con la guerra in Ucraina. Certo, Putin potrebbe usare il disgelo per aumentare la propria autonomia strategica, ma l’imprevedibilità americana e i nervi tesi con l’Europa non facilitano un’ipotetica rottura. Tanto che proprio ieri Xi ha ricevuto a Pechino il segretario del Consiglio di sicurezza russo, Sergej Shoigu, auspicando un ulteriore rafforzamento dei rapporti bilaterali e dando il messaggio di un continuo aggiornamento tra le parti, pochi giorni dopo la telefonata tra il presidente cinese e Vladimir Putin.
Ma, come detto, questo non significa che Pechino voglia partecipare al processo negoziale in prima persona. Anzi, in questa fase la Cina considera un danno d’immagine mostrarsi al fianco di Trump. Anche per questo avrebbe fin qui temporeggiato sulle richieste di summit avanzate dal leader americano, pure a costo di finire nel mirino di una nuova raffica di dazi aggiuntivi. Xi ritiene che in questa fase, osservare dalla giusta distanza le tensioni tra Stati Uniti ed Europa possa dargli dei vantaggi importanti, a partire da un possibile miglioramento dei rapporti con Bruxelles e, soprattutto, i singoli Stati membri.
Anche sul fronte diplomatico, la Cina sembra più pronta a fronteggiare Trump rispetto al suo primo mandato. O quantomeno, a provare a cogliere dei vantaggi dal suo approccio internazionale. La prima volta, si rispose con la cosiddetta “diplomazia dei lupi guerrieri”, con una postura aggressiva che per molti ha fatto sprecare un’occasione. Stavolta, si sta cercando di proiettare un’immagine più morbida e conciliante, da potenza responsabile: garante del libero commercio, sostenitrice del dialogo politico sulle crisi internazionali. L’approccio sta producendo risultati nel cosiddetto Sud globale, ma Pechino crede che possa farlo anche in Occidente. Nello specifico in un’Europa che non può combattere due guerre commerciali e che si ritrova ora disorientata dal voltafaccia trumpiano. Non a caso, proprio nelle scorse ore Xi ha promesso di dare sostanza alla sua nuova “iniziativa di pace globale”, un manifesto che per quanto fumoso può diventare il simbolo del rebranding di una Cina che si sente ora di poter puntare il dito verso gli Usa e incassare dividendi diplomatici.