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 2025  febbraio 28 Venerdì calendario

Ma questa non è la nostra America

Quanto è successo alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky ha solo pochi precedenti. Sono precedenti scolpiti nella memoria di coloro che ancora ricordano qualcosa dei grandi drammi vissuti dalla democrazia europea. Nello Studio Ovale è andata in scena una sorta di replica delle chiamate a rapporto da parte di Adolf Hitler nella sua villa tra le alpi bavaresi una volta di un cancelliere austriaco (si chiamava Kurt von Schuschnigg), un’altra volta del capo di Stato ungherese Horthy, per essere entrambi sottoposti a una furia di insulti e di minacce e sentirsi intimare di cedere alla volontà del Führer quanto rimaneva della libertà dei loro Paesi.
Trent’anni dopo sarebbe toccata più o meno la stessa sorte al leader cecoslovacco Alexander Dubcek convocato da Breznev a Mosca nell’estate del 1968 con l’invito a fare poche storie e accettare senza fiatare l’occupazione del suo Paese da parte dell’Armata Rossa. Quando si arriva al dunque sono sempre tentati di agire così, evidentemente, i despoti, neri o rossi che siano; e oggi dobbiamo dire con la morte nel cuore anche quelli a stelle e strisce. Del resto non si può dire che il Presidente americano non ci avesse preparato a quanto è successo ieri.
Da tre mesi tutte le sue parole sono state parole di minacce, di prepotenza, di disprezzo. Perfettamente in linea del resto con quello che è apparso subito il suo programma: all’interno una democrazia senza liberalismo e dunque senza élite, all’estero un impero americano senza l’Occidente e dunque senza soft power.
Questa è la sfida mortale che Donald Trump ha lanciato non a noi europei solamente, ma alla storia del suo stesso Paese: ignaro certamente che le vendette che questa sa prendersi possono essere terribili. Cerco di spiegare quanto ho appena detto.
Tra il suffragio universale da un lato e i diritti inviolabili di libertà individuale dall’altro c’è stato un felice incontro storico, ma non c’è alcun nesso necessario. Infatti, mentre il primo, il suffragio universale, garantisce l’affermazione della volontà della maggioranza indistinta, dei desiderata della massa; i secondi, i diritti di libertà, tutelano, invece, purché ciò non nuoccia a qualcun altro, la sfera di libertà del singolo, la libertà di ogni individuo di vivere al modo che preferisce, di credere ciò che vuole, di pensare anche le idee più sgradevoli e malviste, di stamparle e diffonderle come vuole, perfino di insegnarle.
Dunque il suffragio universale incarna per sua natura il principio popolare, mentre i diritti individuali hanno invece un’origine, e conservano un carattere, in un certo senso aristocratico. Garantiscono la sfera di libertà del singolo o dei pochi contro i più, ma garantiscano anche che nelle società governate dalla volontà delle maggioranze esistano le élite e le istituzioni che le alimentano. Le istituzioni dove le élite stesse perlopiù operano (in generale tutte quelle che hanno a che fare con il sapere e la cultura in senso lato, dalla burocrazia alla stampa, alle università): nelle quali ciò che conta essenzialmente è il merito.
Fino ad oggi questa parte dell’Europa e gli Stati Uniti sono stati governati da un regime liberal-democratico, un regime, per l’appunto, che contemperava in vari modi diritti ed elezioni, élite e volontà popolare.
L’arrivo di Trump sulla scena segna una drammatica frattura storica tra questi due ambiti. D’ora innanzi nella sua democrazia senza élite – anzi loro nemica – deve contare sempre e comunque solo chi ha vinto le elezioni, solo la volontà popolare da lui rappresentata e basta. E cioè, in pratica, unicamente Lui, solamente il Grande Demagogo, l’idolo della maggioranza. E insieme a lui solo i suoi prescelti, chiunque essi siano, indipendentemente da ogni competenza o comprovata capacità: e quindi dal geniaccio lunatico ai più impavidi improvvisatori di ogni risma. Bando alle élite e alle competenze, appunto.
Ma chi di noi, mi chiedo, si affiderebbe, ovvero affiderebbe qualunque cosa gli stesse veramente a cuore a una tale compagnia? Oggi è questo l’interrogativo che ci arriva da Oltreatlantico; un interrogativo a cui la risposta che viene spontaneamente da dare è ahimè una sola.
Ma ciò che alla fine più colpisce è il carattere suicida che il nuovo Presidente sta imprimendo alla politica estera del suo Paese. Oggi vi sono tre grandi centri di potenza geopolitica sulla scena del mondo – Stati Uniti, Russia, Cina – ma esiste, sia pure molto a mala pena, un solo impero mondiale, quello americano. E l’impero americano è tale, però, solamente perché di esso fa parte l’Europa, tutta l’Europa che vuole essere libera. Solo chi domina l’Europa, infatti, può aspirare a dominare il mondo.
Incorporando nel suo impero il nostro continente, gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza che ancora oggi può pensare di dominare indisturbata entrambe le sponde di uno dei tre grandi oceani della Terra, a differenza della Russia e della Cina la quale ad appena un centinaio di chilometri delle sue coste ha già la spina nel fianco di Taiwan. Sempre grazie all’Europa gli Stati Uniti, poi, dominano di fatto insieme all’Atlantico anche il Mediterraneo, sicché essi sono così in grado di tenere sotto controllo oltre uno snodo fondamentale del commercio e delle comunicazioni mondiali, oltre l’Africa, anche l’epicentro (attuale e con ogni probabilità anche futuro) dello scontro epocale tra l’Islam e il mondo storicamente cristiano.
Non basta. In forza del legame storico con l’Europa l’America può infine contare in ogni evenienza su un patrimonio gigantesco e multiforme di iniziative, di risorse umane e tecniche, di capacità intellettuali, che ancora oggi hanno sede in questa parte del mondo. Senza le quali, ad esempio, essa non sarebbe mai riuscita a disporre di quell’arma che le permise di annichilire il Giappone nell’agosto del 1945.
Ma l’impero americano o è democratico o non è. Non può essere. Democratico significa non solo tenuto insieme dal vincolo di istituzioni egualmente democratiche, di scambi commerciali senza ostacoli e di movimenti umani liberi. Significa anche un insieme di popoli, di donne e di uomini, legati da comuni narrazioni, fantasie, musiche, emozioni, raffigurazioni simboliche, e dunque valori che abitano le loro giornate, i loro sogni, le loro vite. Vuol dire cioè quell’insieme di cose cui gli Stati Uniti hanno dato a partire dagli inizi del Novecento una contributo decisivo modellando, si può dire per sempre, l’immaginario occidentale e dando forma al vero cuore del loro potere sul mondo moderno, quello che si chiama appunto il soft power, il potere soffuso, invisibile. Che alla fine non è altro che il magico potere della libertà. Che fino ad oggi ha spinto tanti di noi, in tante occasioni, a unirsi in silenzio all’antica invocazione God bless America: «Iddio benedica l’America!». Ma l’America che abbiamo conosciuto, non quella che annunciano le truci parole del suo nuovo capo.