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 2025  marzo 01 Sabato calendario

Hammershøi , il pittore che è riuscito a disegnare il silenzio

Le terre fredde del Nord baltico e scandinavo stanno riscuotendo nel pubblico televisivo e cinematografico un notevole successo. Molto si deve alla presenza dentro le trame sia dello spirito nordico con le sue misteriose e irrisolte angosce sociali sia per la programmatica attenzione alle questioni dell’ambiente, del femminicidio e del Queer. Ma anche nelle arti visive, queste società ricevono da qualche anno alcune attenzioni: oltre al solito Munch, sono stati riscoperti nomi come il finlandese Akseli Gallen-Kallela, esposto nel 2012 al Museo d’Orsay di Parigi, la cui pittura espressionista risente del capolavoro letterario delle saghe finniche, il poema epico Kalevala scritto a metà Ottocento da Elias Lönnrot, che recupera la memoria delle mitologie folcloriche. Lo stesso museo parigino inaugurerà fra un mese una retrospettiva dedicata al norvegese Christian Krohg intitolata al “popolo del Nord”, dopo aver celebrato l’anno scorso Harriet Backer, la maggiore pittrice del XX secolo norreno. Come mai le terre fredde attirano tanto l’attenzione? Si potrebbe dire che il problema principale che ritorna in questi paesi nordici è quello della felicità dell’individuo a fronte di un diffuso senso di angoscia, che prevale nonostante il benessere. In queste società, per esempio, è molto alto il tasso dei suicidi, soprattutto fra i giovani.
Questo contrasto lo si avverte anche nella pittura apparentemente immobile del danese Vilhelm Hammershøi, vissuto a Copenaghen dal 1864 al 1916. Un pittore molto misterioso, che ebbe una certa notorietà (anche in Italia) e cadde poi per oltre mezzo secolo nell’oblio, mentre da qualche anno è al centro di una notevole riscoperta. Il confronto con la modernità e le avanguardie per lo stile di Hammershøi non fu facile. Oggi però la sua «capacità di catturare l’aria intorno alla figura», come scrive Annette Rosenvold Hvidt nel catalogo della mostra che Rovigo gli dedica nelle stanze di Palazzo Roverella fino al 29 giugno, comunica col nostro tempo meglio forse che nella sua epoca. L’atmosfera fredda che circonda il personaggio ritratto, dove il silenzio interiore – il non detto – fa il vuoto nello spazio, è testimoniata in modo sublime nel ritratto della moglie Ida del 1890. Un capolavoro di fibrillazione emotiva tenuta a freno dall’occhio dell’artista che domina le vibrazioni minime del colore. Per questo ritratto, che da solo vale il viaggio a Rovigo, Vilhelm si servì di due fotografie della moglie seduta, ma la sua realizzazione finale, pur senza variare di molto dalla realtà, presenta minime differenze, per esempio nel volto assorto della donna, che denotano il controllo assoluto della scena da parte del pittore.
Come osserva il curatore della mostra, Paolo Bolpagni, Hammershøi «non dipinge ciò che vede ma ciò che vuole vedere». In sostanza, dipinge come un visionario. Per Henri Focillon, il grande critico e storico dell’arte francese, che nel 1928 cita Hammershøi nella sua storia della pittura, i visionari sono coloro che visionano la realtà dall’interno e ne colgono il segreto interiore. Ed è ciò che fa anche Hammershøi quando dipinge ritratti e interni domestici spesso privi di presenze umane, ma dominati soltanto dall’architettura fatta di mobili, porte e finestre. Uno schema, questo, che il pittore trae, raggelando i toni, dalla pittura fiamminga seicentesca, in particolare dagli interni domestici di Pieter de Hooch e di Vermeer, visti nel viaggio in Belgio e Olanda del 1887. A illuminare meglio il metodo di Hammershøi sarebbe stato utile che la mostra avesse indagato più nello specifico sia il rapporto con la fotografia sia l’ispirazione che gli venne dai fiamminghi del Seicento.
La rassegna circonda l’opera di Hammershøi con le opere dei “pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia”; ci si chiede se non sia una via di fuga da una idea iniziale che intendeva rappresentare in modo più approfondito Hammershøi. Allestire una esposizione su questo grande danese oggi è, in effetti, impresa proibitiva. Le sue opere sono richieste da molti musei nel mondo, e tante sono già prenotate. Complessivamente i dipinti del danese a Rovigo sono quindici, mentre molte di più sono le opere dei maestri del Nord e italiani (fra questi Oscar Ghiglia, Giannino Marchig, Giuseppe Ar, Umberto Prencipe).
Si può parlare per Hammershøi & C. di una scuola del silenzio come quella che Marc Fumaroli interpretò nel suo saggio sulla pittura e la poesia nel Seicento? Direi di no. Ma l’anno scorso a Basilea la galleria Hauser & Wirth ha allestito la retrospettiva: Vilhelm Hammershøi. Silence. Un pensiero dunque ricorrente. Si tratta di intendere bene di che silenzio parliamo. Emilio Cecchi scrisse che nella pittura di Hammershøi era «in agguato una misteriosità irreale»: alludeva a una sorta di dolce morte attraverso lo sguardo: «Anche intorno, fuori dalle finestre, deve essere sonno e silenzio». Come la narcosi indotta dal gelo che s’impossessa del corpo quando si resta assiderati.
I colori principali usati da Hammershøi sono anzitutto il bianco, il grigio, con superlative sfumature che vedono lacerti di verdi e rossi affiorare alla superficie, e il nero. Ma è la luce la sua regina, il mezzo con cui l’artista iberna la realtà. Una tecnica raffinata che si rivela soprattutto nei ritratti, alcuni di spalle, e nelle ombre che animano gli sfondi; l’effetto finale è un mondo intimista ma privo spesso di realtà viventi. Come se il silenzio fosse l’unico abitatore legittimo negli spazi ineffabili del grande Nord.