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 2025  marzo 01 Sabato calendario

Politically correct e woke uccidono le riviste d’arte

L’avvento del digitale ha innescato una serie di sconvolgimenti nel mondo dell’editoria d’arte contemporanea, talvolta imprevedibili e contraddittori. Se ci si poteva aspettare una diminuzione della carta stampata, è accaduto l’esatto contrario: oggi si producono molti più cataloghi e libri, spesso di alta qualità. In questo contesto l’Italia ha giocato un ruolo di primo piano, tanto che l’influente curatore Hans-Ulrich Obrist ha parlato esplicitamente di una sorta di miracolo italiano. Negli ultimi due decenni sono nate case editrici giovani e brillanti, divenute nel tempo player globali, come Mousse, Kaleidoscope e Lenz a Milano, Neroe Cura a Roma, brun o a Venezia, Viaindustriae a Foligno. Non solo: a livello internazionale si sono moltiplicate le riviste di settore, eppure proprio qui emerge un’altra contraddizione. Fino ai primi anni del millennio, le riviste d’arte erano il fulcro del dibattito culturale, il luogo in cui si decidevano i giochi, promuovendo tendenze e spesso decretando le sorti degli artisti. Gli articoli venivano letti, discussi, dibattuti, e ci si scambiava continumanente consigli sui testi più meritevoli. Oggi invece le riviste sembrano vivere una crisi profonda da cui faticano a uscire. L’informazione su quanto accade nel mondo dell’arte è facilmente accessibile online, soprattutto attraverso i social. A questo si è aggiunta una crisi legata alla riflessione critica: gli articoli imperdibili sono sempre più rari e capita con meno frequenza che colleghi e artisti parlino dei numeri in uscita. Colossi come Artforum hanno sofferto il clima politically correct e woke imperante a New York negli ultimi anni; la londinese Frieze è diventata marginale; e anche un mito mondiale come la nostra Flash Art ha ridimensionato l’edizione italiana a un annuario (lasciando presagire il peggio) mentre l’edizione internazionale si orienta sempre più verso la moda. Si stanno tramutando in contenitori pubblicitari?