Tuttolibri, 1 marzo 2025
La chiesa sarebbe ancora più ricca se a predicare fosse una donna
Tra i divieti attuali che nella chiesa cattolica molti discutono con rispetto, serietà, approfondimenti dottrinali e senza contestazioni o logiche di potere da acquisire, ve n’è in particolare uno che riguarda i fedeli laici, donne e uomini, i quali, pur potendo partecipare in diversi modi al servizio liturgico, non possono fare l’omelia durante la celebrazione eucaristica. Il Codice di Diritto Canonico dichiara in modo netto che «l’omelia … è riservata al sacerdote o al diacono» (canone 767, § 1).
Se questa è la legislazione da osservare, è certamente lecito porre domande, chiedere chiarimenti ed esprimere attese e desideri per una revisione dell’attuale disciplina da parte dell’autorità competente. Ci sono ragioni per tale discussione? Crediamo di sì, come già fecero teologi di grande competenza e autorevolezza, tra i quali Jean-Hervé Nicolas e Yves Congar. Insieme a loro ci domandiamo: l’attuale disciplina risponde a un’esigenza dottrinale oppure obbedisce a ragioni di prudenza pastorale?
Innanzitutto, la predicazione omiletica affidata ad alcuni laici uomini e donne scelti e incaricati dal vescovo non sarebbe una novità nella lunga storia della chiesa fin dall’antichità. Ci basti qui ricordare che nel Medioevo, prima del divieto di predicazione ai laici stabilito nel 1228 da Gregorio IX, i vescovi e il papa concessero il mandatum praedicandi ad alcuni uomini e donne laici, in un fecondo esercizio di rinnovamento all’interno di movimenti evangelici laicali sviluppatisi nella stagione della riforma gregoriana. I poveri di Lione, più tardi chiamati Valdesi, gli Umiliati e altri gruppi chiesero al papa di Roma l’approvazione della loro forma vitae e dell’esercizio della predicazione, ricevendo questa facoltà. La vita evangelica di questi predicatori dava loro un’autorevolezza di competenza e coerenza di vita, sicché la loro parola appariva performativa: si pensi a Roberto d’Arbrissel (1045-1116), che predicava di fronte al clero, ai nobili e al popolo, su approvazione di Urbano II; oppure a Norberto di Xanten (1080-1134), che ricevette l’officium praedicandi da Gelasio II. Ma si ricordi che questo fu possibile anche per alcune donne, tra le quali eccelle Ildegarda di Bingen (1098-1179), proclamata da Benedetto XVI dottore della chiesa, abbadessa che predicò in diverse cattedrali chiamata da vescovi ed ebbe tra i suoi ascoltatori anche Eugenio III.
E oggi? Nella chiesa del tempo post-conciliare, da quando papa Giovanni con il suo discernimento profetico individuò tra i “segni dei tempi” l’ingresso della donna nella vita pubblica, più volte sentiamo voci – a cominciare da quelle dei papi – che si levano per chiedere una più grande valorizzazione della donna nella chiesa, una sua maggior partecipazione alle diverse istituzioni che la reggono e la organizzano, un riconoscimento a lei di tutte le facoltà che in quanto battezzata possiede di diritto. Non mancano neppure le voci che domandano l’accesso delle donne al diaconato o all’ordine presbiterale, ma su questo tema vi sono pronunciamenti recenti e netti del magistero.
C’è invece una strada alquanto decisiva per la valorizzazione della donna nella chiesa, una possibilità che riguarda più in generale i fedeli, uomini e donne, possibilità già esperita nella storia della chiesa e di fatto presente, nonostante l’attuale disciplina, in molte chiese locali: la presa della parola nell’assemblea liturgica da parte di fedeli laici, uomini o donne.
Un chiaro e inequivocabile messaggio in questa direzione viene dal volume curato del Coordinamento delle teologhe italiane, Senza Indugio, Con voce di donna, Omelie per l’anno C, edito da Il Portico, Edizioni Dehoniane di Bologna. Alice Bianchi, Emanuela Buccioni, Donata Horak, Giulia Lo Porto, Cettina Militello, Donatella Mottin, Marinella Perroni, Simona Segoloni Ruta, Cristina Simonelli, Silvia Zanconato sono dieci donne credenti, a diverso titolo teologhe, patrologhe e bibliste, appartenenti a due generazioni, che pubblicano sessantasei omelie distribuite sulle domeniche e le feste dell’anno liturgico attualmente in corso. E lo fanno appunto, senza indugio, cioè con quella risolutezza che l’evangelo secondo Luca riconosce ad alcuni personaggi. Quella concitazione, quell’affrettarsi che nasce da quanto visto e udito: Maria si precipita dalla cugina Elisabetta, i pastori di Betlemme vanno subito verso il bambino appena nato, i discepoli di Emmaus che tornano in fretta a Gerusalemme dopo l’incontro con Gesù risorto. «È sembrato infatti alle autrici e agli editori che senza indugio rendesse bene l’esito dell’incontro con il vangelo – felice inquietudine, convinta passione, solerte azione». I testi che questo volume raccoglie non sono semplici commenti al vangelo, ma sono vere e proprie omelie, pensate, scritte e destinate alla comunità liturgica.
Dall’incontro di queste dieci autrici con l’evangelo secondo Luca sono nate delle omelie che comprovano e confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, non solo che le donne sanno predicare la parola di Dio quanto gli uomini, ma che letto e interpretato da donne preparate e competenti l’evangelo acquista armonie nuove e diverse. La chiesa sarà più ricca quando le donne potranno pronunciare l’omelia.
Molti, tra cui papa Francesco, mettono in guardia dalla “clericalizzazione delle donne”, paventando il pericolo che le donne riempiano le sacrestie invece di essere cristiane nel mondo. Credo invece che, concedendo ad alcuni laici di tenere a volte l’omelia durante la liturgia eucaristica, essi non vengano clericalizzati, ma venga riconosciuto un dono a chi tra loro lo possiede. Véronique Margron, Catherine Aubin, Dominique Coatanéa e altre teologhe e teologi non solo sono favorevoli a tale possibilità, ma vi vedono il riconoscimento della presenza di doni che lo Spirito dispensa come e quando vuole, sempre tenendo fermo il necessario discernimento e riconoscimento da parte del vescovo.
Leggendo Senza indugio e gustando le omelie contenute sorge spontanea la domanda: perché l’unica voce che nella liturgia proclama il Vangelo è sempre quella di un uomo e mai quella di una donna? La chiesa dovrebbe esprimersi a due voci, maschile e femminile, perché la lettura e l’interpretazione delle sante Scritture assumono nei due casi accenti diversi, che possono solo arricchire il popolo di Dio in ascolto.
Si pensi anche alla situazione delle comunità monastiche femminili, dove il cappellano, sempre e solo lui, fa l’omelia ogni giorno e le monache non ascoltano se non lui, senza avere mai la possibilità di predicare, pur essendo un gruppo ristretto e capace di far udire le loro rispettive voci in modo autorevole nella liturgia eucaristica.
Del resto, come dimenticare che Gesù ha predicato nelle sinagoghe di Nazareth e di altre città senza essere né un sacerdote né un rabbino ordinato, ma lo ha fatto per carisma profetico e perché incaricato dai capi delle diverse sinagoghe?
Se l’apostolo Paolo ha potuto scrivere «le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare» (1Cor 14,34), oggi si avverte la necessità, almeno in Occidente, che nelle assemblee della chiesa la parola sia data anche alle donne e a loro sia permesso parlare.