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 2025  marzo 01 Sabato calendario

"La verità è che scrivo romanzi perché ho bisogno di essere amato"

Gabriel García Márquez l’autore di Cent’anni di solitudine, il più amato tra gli scrittori latinoamericani, piccolo, quadrato, baffuto e seducente, spiega di aver accettato di far parte della giuria del festival di Cannes perché glielo ha chiesto un amico, il ministro francese della Cultura, Jack Lang. «L’ho conosciuto quando girava per l’America Latina con il teatro di Nancy, jeans e testa romantica, un ragazzo uscito dal Sessantotto. L’ultima cosa immaginabile era che sarebbe diventato ministro».
Da lui lo scrittore colombiano ha avuto pure un incarico statale di consulenza per i rapporti culturali franco-latinoamericani: «Sto a Parigi nei tre mesi dell’anno in cui non fa freddo, vado in Colombia per quattro-sei mesi l’anno, abito a Città del Messico nel resto del tempo. Vado spesso anche a Roma, ho lì tanti amici: non letterati ma gente di cinema. Rosi, Antonioni, Pontecorvo, Monica Vitti, Bertolucci... Un altro amico è il presidente francese Mitterrand: «Gli aveva parlato di me Pablo Neruda quando era ambasciatore a Parigi, gli aveva fatto leggere i miei libri. Venne in Messico dopo la sconfitta alle precedenti elezioni presidenziali e sembrava malato, sfiduciato, stanco: adesso, l’ho visto anche l’altra sera all’Eliseo, il potere l’ha ringiovanito...».
Il nuovo romanzo di García Márquez, Cronaca di una morte annunciata, pubblicato in più di un milione di copie in Spagna, Colombia, Messico, Argentina, sta per uscire in Italia. Ma in giorni come questi è inevitabile che il narratore del Paese latinoamericano (se parlando di New York dici «in America», subito ti corregge: «Negli Stati Uniti») si appassioni, prima che ai libri o al cinema, alla politica.
L’Argentina, la guerra con gli inglesi: da che parte sta lei?
«Per la gente politicamente matura e capace di analisi, che è contro il governo argentino, è stato un problema: perché in Sudamerica non soltanto ogni governo, salvo tre, ma la gente, tutti, si sono schierati con slancio dalla parte dell’Argentina. È un sentimento passionale di tutto il continente, un riflesso anticolonialista profondo: accentuato dalla posizione veramente incomprensibile assunta dagli Stati Uniti. Quello che tanti europei non hanno capito è che la giunta militare argentina non sopravviverà a questo episodio, che questa guerra segnerà la sua fine...».
"Cronaca di una morte annunciata” racconta una storia?
«No, un fatto di cronaca, un delitto realmente accaduto trent’anni fa in un piccolo paese della Colombia: una giovane sposa venne riportata alla casa paterna, nella notte delle nozze, dal marito che non l’aveva trovata vergine; i parenti della ragazza pretesero di conoscere il nome del seduttore; e i suoi due fratelli, costretti dall’onore della famiglia a lavare l’onta col sangue, lo uccisero. È un libro molto breve, 160 pagine, molto facile da leggere, raccontato con un linguaggio molto accessibile. Il metodo che ho usato, da investigatore del “giallo” della società, da ricostruttore di storie, è simile a quello di Sciascia: l’aneddoto è soltanto il pretesto per radiografare un microcosmo sociale. Non so neppure se ciò che ho scritto è davvero quanto accadde allora, forse la vita mi ha confuso la memoria. So che doveva essere il mio primo libro: da trent’anni questa storia continuava ad andare e tornare in me».
Perché non l’ha scritta prima?
«Mia madre mi pregò di non farlo: la madre dell’ucciso, ora morta, era una sua amica. E l’assassinio del seduttore avvenne perché quella sua madre gli chiuse la porta in faccia, gli impedì di rifugiarsi in casa. Non credeva che l’avrebbero davvero ammazzato, pensava a una lite tra giovanotti cresciuti insieme ed amici da sempre; ma il suo sentimento dominante era la paura dello scandalo, la volontà di tenere a ogni costo lo scandalo fuori di casa sua. Così senza volerlo, per pregiudizio e destino, una madre rese possibile l’uccisione del figlio. Per pregiudizio e destino due fratelli, che non erano assassini, uccisero. Non volevano, continuavano a dire a tutti che andavano per uccidere nella speranza che qualcuno li ostacolasse, ma nessuno del paese li fermò: dovevano uccidere, era una questione d’onore, una vendetta sociale, una morte rituale».
È una storia che appartiene al passato?
«Da noi, è ancora contemporanea. Restano immutati, nei piccoli paesi, quel concetto dell’onore, quel valore della verginità, il timore dello scandalo, la ritualità dell’uccisione, quelle leggi sociali indifferenti alla persona, più forti dell’uomo e per esso distruttive. Il romanzo è anche una occasione per analizzare la condizione della donna, e non soltanto da noi: Francesco Rosi voleva farne un film, e ambientarlo in Sicilia. A me non va: come dietro ogni grand’uomo c’è una gran donna mentre dietro ogni grande donna c’è un uomo da poco, così non conosco grandi film tratti da grandi romanzi, mentre ho visto grandi film tratti da romanzi mediocri».
"Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa è un romanzo mediocre?
«Io preferisco il film che ne fece Visconti. Se Cronica de una muerte anunciada ha la tensione di un giallo, il mistero si addensa sull’interrogativo: come è avvenuto il delitto? Le altre domande tradizionali del poliziesco – chi, quando, dove, perché?- ottengono risposta subito, sin dal primo capitolo. Volevo vedere se, pur sapendo tutto dall’inizio, la gente avrebbe seguitato a leggere, e credo che il test sia risultato positivo: del libro si sono già vendute più di un milione di copie, continuano a vendersene e spero se ne venderanno anche in Italia, che dopo i Paesi di lingua spagnola è il posto dove i miei libri vengono letti di più».
Avere molti lettori è la cosa più importante, per lei?
«Io scrivo per essere letto dal maggior numero di persone possibile, per comunicare... No, non è vero. Scrivo per essere amato: e il mio desiderio di essere amato è immenso, infinito»