Tuttolibri, 1 marzo 2025
"’O Connor amava i polli e nessuno scriveva come lei"
Quando aveva cinque anni e viveva a Savannah, nello stato della Georgia, una televisione di New York mandò una troupe a casa sua a filmare un pollo al quale aveva insegnato a camminare all’indietro. Anni dopo, Flannery O’Connor riconoscerà – con ironia, ma nemmeno troppa -, che quello era stato «il momento più importante della mia vita. Tutto il resto un decrescere». Alla vigilia del centenario della sua nascita, il 25 marzo 2025, esce La ragazza di Savannah, suggestivo romanzo biografico su una delle più grandi scrittrici (maschi e femmine) di tutti i tempi, creatrice di capolavori come i romanzi La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti e alcuni tra i più bei racconti – di una bellezza incendiaria che lascia smarriti – mai scritti. L’autrice è Romana Petri che, dopo essersi fatta inghiottire dai «visceri neri, invisibili da fuori» della scrittrice del Sud degli Stati Uniti, ha saputo abilmente intrecciare i fatti biografici con i voli della propria appassionata immaginazione. Così, in queste pagine, vediamo Flannery bambina, adoratrice ricambiata di un padre che morirà presto; ragazza dipendente in tutto dalla madre; donna innamorata e respinta; fervente cattolica ortodossa osteggiata dai bigotti delle prime panche. E ancora: lei che legge Tommaso D’Aquino e Marco Aurelio, dà da mangiare ai suoi adorati pavoni, prega Dio che le dia la forza di scrivere e, infine, che si ammala di Lupus eritematoso sistemico e muore nel 1964, a soli 39 anni.
Petri, che cosa l’ha attratta in questa donna?
«Quasi mai, quando scrivo un libro, so perché lo sto scrivendo. Questa volta però sì: far sapere a tutti che Flannery O’Connor era un genio. Non uso, appositamente, l’espressione “la più grande scrittrice dei suoi tempi” perché sottintende sempre “tra le altre scrittrici donne”. Lei è stata la più grande, di tutti. Nessuno scriveva come lei. Era perfetta, meravigliosa. A un certo punto Truman Capote dice: «Quella ragazza ha delle trovate», ma la verità è che Capote poteva portarle il caffè a letto. Voglio dire, lui per scrivere A sangue freddo ha avuto bisogno di frequentare i due assassini, intervistarli. O’Connor non ha avuto bisogno di nulla perché lei i balordi di cui scriveva ce li aveva dentro. Erano i reietti, i prescelti da Dio, come si vede in racconti come Brava gente di campagna o Un buon uomo è difficile da incontrare. Diceva che, piuttosto che un bigotto, Dio preferiva un assassino».
Chi era Flannery, quindi?
«Una donna intelligente, ironica, sardonica, brillante, disperata, desiderosa di sesso, che compensava col cibo, e di amore. Perché gli uomini, tutti, trovano una moglie mentre a una donna basta avere una malattia per essere schifata».
Che rapporto aveva con il proprio aspetto fisico?
«In realtà, era nata bella: la ragazza sulla copertina del libro è lei, a 18 anni. È diventata brutta a causa del lupus, che le hanno diagnosticato a 25 anni, una malattia deformante. Doveva portare le scarpe ortopediche, camminare con le stampelle. Aveva le anche che si disossavano, le mascelle che le facevano male. A un certo punto, per il dolore, prendeva otto aspirine al giorno: avrebbero ucciso un cavallo.
Adorava la bellezza, però.
«È una cosa che ci accomuna. Avendo avuto un padre bellissimo, il cantante lirico Mario Petri sul quale ho anche scritto il libro Le serenate del ciclone, sono cresciuta con il mito della bellezza, sia maschile che femminile. Flannery, giustamente, si innamorava di uomini belli, aveva amiche belle, soffriva per la propria bruttezza, però sapeva riderne».
Tutta la tenerezza la riservava ai suoi polli.
«Quello era un amore nato da piccola. Da adulta poi sono arrivati i pavoni, che per lei rappresentavano la Chiesa, nelle loro code vedeva gli occhi di Dio. Li venerava e sua madre le permise di tenerne addirittura 80».
Regina, la madre “generalessa": è stata fondamentale.
«Era una ranchera che allevava mucche e faceva il formaggio, e quando leggeva gli scritti di Flannery finiva per addormentarsi. Però, è stato solo grazie a lei se la figlia ha potuto scrivere e vivere un po’ più a lungo. Le è stata accanto tutta la vita senza mai pietirla».
L’ha anche molto oppressa.
«È stato un grande fardello, non potere essere libera e infatti Flannery l’ha anche detestata: in molti suoi racconti compare una donna molto simile alla madre che viene ammazzata. Ma come avrebbe potuto farcela senza di lei? Era consapevole dei propri limiti».
Condivide la teoria di O’Connor secondo cui l’ispirazione è un attimo, il resto è sforzo?
«Ho amato questa sua visione “sportiva”, simile alla mia. La scrittura, come il calcio, la boxe, la corsa, è allenamento, devi scrivere ogni giorno perché se sei lì e ti viene l’idea giusta sei pronta ad afferrarla».
Flannery si chiede: «Basterà la mia pungente ironia a trovare un po’ d’amore?».
«L’amore è il grande interdetto della sua vita. Si innamorerà per tre volte, ma verrà sempre rifiutata. Poi, quando arriverà il suo “giovane Jung” deciderà che basta così, e tirerà su un muro di ghiaccio».
Quanto è sbagliato leggerla in chiave autobiografica?
«Lei diceva sempre: “Se dovessi scrivere un racconto nel quale metto tutta me stessa, sarebbe sicuramente un bruttissimo racconto”. Che è il contrario di quello che succede oggi, tra autofiction e social, dove postiamo la foto dell’unghia incarnita e in cui dobbiamo mostrare che si può essere malatissimi e sorridere per forza. Mi sembra che stiamo assistendo a una sorta di evisceramento, in cui viviamo con le nostre trippe fumanti in faccia a tutti. In questo momento secondo me manca la hybris della fantasia, la sfrenatezza dell’immaginazione, e in questo ci rimette un po’ anche la scrittura».
Flannery non temeva le critiche, ma quando un giornalista affermò che lei scriveva certe cose perché era malata si infuriò.
«Qualcuno avrebbe mai osato affermare che Proust aveva scritto La Recherche perché aveva l’asma e doveva stare chiuso in una stanza? Invece per una donna, per di più malata, non c’è pietà. Noi donne non siamo amate. È per questo che dobbiamo amarci da noi, smetterla di farci la guerra tra “povere” e alzare un muro di scudi. In questo Flannery è stata un’antesignana, sempre molto generosa nei confronti delle altre donne che scrivevano. Credo che oggi la generazione che va dai 40 ai 50 anni abbia iniziato a capirlo e a metterlo in pratica».