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 2025  marzo 01 Sabato calendario

Maledetto e contemporaneo Klaus Mann ci vuole dire tutto

Gli scrittori maledetti non passano mai di moda, ci piace pensare che le loro opere assomiglino alle loro vite (e viceversa), e tutti gli scrittori per essere presi sul serio devono in qualche modo possedere le stigmate dell’autodistruzione. La legge vale anche per Klaus Mann, scandaloso secondogenito di Thomas Mann, che visse parte della sua vita all’insegna della sregolatezza e dell’eccentricità, abusando di alcol e droga (morì suicida per una overdose), prima di abbandonare l’Europa di Hitler per trovare rifugio negli Stati Uniti e di cominciare a scrivere in inglese. Adesso Castelvecchi manda in libreria una raccolta di racconti intitolata Speed (traduzione e cura di Massimo Ferraris), e più che a referenti mitteleuropei il pensiero corre subito – à rebours – a un altro grande sregolato ed eccentrico, un genuino paria della società, guarda caso americano e scrittore di racconti, che risponde al nome di Edgar Allan Poe. L’attacco di Speed, il lungo racconto che dà il titolo alla raccolta di Klaus Mann non potrebbe essere più emblematico di un gusto decadente e orrifico insieme: «È la fine. Sono annichilito. Non c’è più alcuna via d’uscita, alcuna speranza. Sono perduto. In passato, conducevo un’esistenza ordinata. Ma era tanto tempo fa… Ero un uomo rispettabile – un cittadino austriaco. Perché ho lasciato il mio Paese? Perché ho attraversato l’oceano? Come mi sono ritrovato in questo sporco affare? In questo buco, dove mi nascondo come un ladro! A fissare le tenebre, paralizzato dalla paura; ad ascoltare questi orrendi lievi rumori dappertutto – questi fruscii e crepitii incessanti… Devono essere topi – a migliaia, che corrodono la casa… Trema e vacilla tutto…».
Il racconto narra dello strampalato rapporto di amicizia tra un espatriato austriaco (così come Poe preconizzò l’inconscio, Mann presagì il male oscuro in cui sarebbe caduto il nazionalsocialismo tedesco) e un ragazzo della Carolina del nord, in una New York livida in cui la fine della Grande Depressione ha aperto la porta alla voglia di sballo, in particolare grazie all’abuso di sostanze psicotrope.
Speed, almeno nelle sue premesse ideali, sembra poggiare le fondamenta sui migliori racconti di Poe. È un misto di horror e di giallo, un Cuore rivelatore piombato nel novecento. «Percorre le strade in preda alla follia o alla malinconia. Le sue labbra sono agitate da oscure maledizioni, oppure da ardenti preghiere. Erra, con il volto oscurato da tristi pensieri, sfidando uragani scatenati, per tutta la notte, con i vestiti completamente fradici e le braccia agitate nel vento e nella pioggia», annota il primo biografo di Edgar Allan Poe. In Speed il protagonista non ha un aspetto molto dissimile, cammina senza sosta per combattere il male di vivere, per dimenticare una moglie che l’ha ripudiato perché non appartiene alla razza ariana. «Non c’è dunque da stupirsi che abbia preso l’abitudine di passeggiare senza meta per ore – ne sono diventato letteralmente dipendente, come da una droga. Camminavo per le strade – sempre da solo. In lungo e in largo per tutta la città: Times Square, Harlem, Brooklyn, Central Park… Spinto da una forza invisibile… Stanco, esausto, stordito. E completamente solo».
La biforcazione fatale tra i due scrittori maledetti sta nella mole d’informazioni che decidono di concedere o negare al lettore. In questo peculiare elemento, Klaus Mann è meno geniale ma più vicino a una sensibilità contemporanea. Dell’espatriato e del suo amico contaballe vuole dirci tutto, proprio come pretenderebbe oggi un editor scrupoloso o un produttore di serie algoritmico. Ne Il cuore rivelatore invece manca la connotazione spazio-temporale (la casa dove si svolge l’azione è avvolta dal buio, un brodo primordiale) e manca il tipo di rapporto che protagonista e deuteragonista intrattengono tra loro (Filiale? Lavorativo? Casuale?). Si resta turbati e sedotti da questi buchi, da questa sfilza di mancanze cognitive in cui ci si deve districare nel giro di poche righe. E viene da ridere se si pensa a quanto il lettore/spettatore odierno debba e voglia essere imboccato pedissequamente con le psicologie dei personaggi (matrice sociale, famiglie, vissuto), quasi dei prosaici biglietti da visita che fungono da bugiardino di medicinale. Poe la posologia della medicina non te la vuol dare, anzi ti avvisa implicitamente che se l’antidoto viene preso nelle dosi sbagliate può trasformarsi in un veleno. È il rischio che corre spesso Klaus Mann, salvo poi rendersi conto sul finale di Speed che ha ragione il suo predecessore bostoniano: «Non si può mai dire quale sia la causa delle grandi tribolazioni nella vita di una persona, così come non si può mai spiegare la ragione di una gioia travolgente». E si è presi da una terribile nostalgia per una letteratura sbagliata, totalmente senza criterio stando alle griglie produttive e interpretative di questi nostri tempi artisticamente asfittici, wikipedizzati, telecomandati.