la Repubblica, 28 febbraio 2025
Tra “abiurandi” e difensori del renzismo, così il referendum Jobs act agita il Pd
La faglia nel Pd c’è, e proprio sul lavoro tema centrale. Che fine hanno fatto tutti i dem che votarono con convinzione la riforma voluta da Matteo Renzi del Jobs act e che ora si ritrovano accanto a Elly Schlein a sostenere il referendum di Maurizio Landini? Sono gli “abiurandi”. La questione è complessa, ma anche semplice. I riformisti della corrente “Energia popolare” con in testa Alessandro Alfieri e Lorenzo Guerini, non hanno votato la relazione della segretaria Schlein, alla fine della direzione di ieri, proprio a causa del referendum sul Jobs act in cui i Dem schleiniani si impegneranno. Alfieri a nome di tutti i riformisti dem dice: “La segretaria conosce la nostra posizione da un anno: il Jobs act è ormai superato, discuterne e prendere queste posizioni rischia di portarci indietro di anni invece di andare avanti. Lavoriamo piuttosto in Parlamento sui temi del lavoro”. Quindi Alfieri farà la battaglia per tutti gli altri referendum ma non voterà quello sul Jobs act. Sempre nella direzione dem di ieri, la relazione di Schlein non è stata votata dai riformisti. Una spaccatura? Alfieri replica: “Siamo un partito plurale quindi non si può parlare di spaccature”. In direzione, Simona Malpezzi ad esempio, ha detto che bisogna difendere le cose fatte in passato, compreso il Jobs Act e, ha aggiunto, le distinzioni tra vecchio e nuovo Pd non significano nulla. Ma di certo torna l’abitudine a fare i conti con il renzismo. Forse fuori tempo massimo, dal momento che il tempo è passato e ha cambiato anche il Jobs act prima maniera con interventi della Consulta.
Matteo Orfini all’epoca di Renzi il Jobs act lo sostenne. Ma ricostruisce: “Io non avrei mai toccato l‘articolo 18. Quando Renzi fece il Jobs act insieme a Speranza, trattammo e mediammo. Andai personalmente prima della direzione decisiva a Palazzo Chigi e ottenni il ripristino del reintegro per i licenziamenti disciplinari e per quelli discriminatori, cosa che portò anche la minoranza a dare il via libera: Epifani affermò che questa modifica era molto rilevante. Detto questo, quel Jobs act non esiste più sia perchè i decreti attuativi qualche danno lo fecero, sia per l’intervento della Corte costituzionale. Quindi sinceramente non mi pare si ponga il tema di abiurare, si può seguire l’indicazione del partito senza drammi”.
Un “abiuratore” seriale sostiene di essere Antono Misiani, ora responsabile economia della segreteria Schlein. Al Jobs act, dopo l’epoca Renzi, ha detto no subito dopo, quando divenne segretario Nicola Zingaretti ed è in linea con Schlein.”Ho una schiera di abiure alle spalle sul tema, ma è contro la precarietà del lavoro la nostra battaglia”, sostiene. Nel 2014 quando venne discusso il Jobs Act di Renzi ci fu una schiera di dissidenti dem. Nel gruppo che firmò il documento contro la linea Renzi sul lavoro c’erano Rosy Bindi, Gianni Cuperlo, l’attuale capogruppo al Senato Francesco Boccia, Stefano Fassina (ora non più nel Pd) e poi Agostini, Bray, Argentin, Farina, Fontanelli, Fossati, Pollastrini, Miotto, Zoggia: in tutto 29. Cuperlo apprezza la presa di posizione della segretaria Schlein e vuole che i riformisti escano allo scoperto. Così anche Arturo Scotto, che all’epoca era nelle file della sinistra proprio per quella politica riformista renziana. Scotto contro il Jobs act organizzò l’ostruzionismo. Segnala ora che il referendum non è solo su articolo 18 ma anche contro la precarizzazione del lavoro, i contratti a termine e le liberalizzazioni. Sacrosanto.