Corriere della Sera, 28 febbraio 2025
La vera storia del saluto romano (che non è romano) da Mussolini a Musk: i film muti, il «furto» dei nazisti e una tradizione inventata
Cento anni fa Benito Mussolini, intento alla costruzione della dittatura dopo aver superato la crisi del delitto Matteotti, impose l’uso del «saluto romano» nelle amministrazioni civili: era il 27 novembre 1925. Un segno evidente della volontà di fascistizzare l’apparato dello Stato, mettendolo al servizio di una parte che si proclamava unica vera rappresentante della nazione e in quanto tale legittimata a dominare la società intera. L’invenzione del saluto romano
In realtà quell’atto simbolico si basava su una tipica «invenzione della tradizione». Lo battezzarono «saluto romano» per riallacciarsi alla gloria dei Cesari, ma con l’antichità c’entrava ben poco. Il gesto adottato dai fascisti per manifestare la propria fede politica, con il braccio destro alzato quasi in verticale, il palmo della mano aperto e le dita unite, non ha riscontro nella letteratura latina e neppure nei reperti archeologici giunti fino a noi.
Si trovano statue di condottieri e imperatori che sollevano il fatidico arto, ma di solito con il gomito leggermente piegato e con le dita in posizione diversa, tenendo l’indice rivolto verso l’alto. Più che di un saluto, per esempio nel maestoso Augusto di Prima Porta, si tratta probabilmente di un cenno rivolto ai legionari prima di tenere loro un discorso.
Le vere origini del gesto
Sono altre le origini del gesto che di recente è riecheggiato – forse volutamente, come provocazione – nella mimica di due campioni della destra trumpiana, Elon Musk e Steve Bannon. Nel libro Quel braccio alzato (Castelvecchi, 2024) il linguista Massimo Arcangeli fa riferimento piuttosto al Neoclassicismo, corrente artistica e culturale assai influente tra la fine del Settecento e la prima parte dell’Ottocento.
All’epoca l’antichità romana andava di gran moda (si pensi al titolo d’imperatore e al simbolo dell’aquila adottati da Napoleone Bonaparte) e a volte la si richiamava con qualche eccessiva licenza poetica. Emblematico a tal proposito il famoso quadro del pittore francese Jacques-Louis David Il giuramento degli Orazi, nel quale i tre leggendari fratelli romani, destinati a scontrarsi con i Curiazi di Alba Longa, tendono le braccia verso il padre che porge loro le spade per il combattimento. Curiosamente però solo uno degli Orazi, quello in primo piano, proietta in avanti il braccio destro, mentre gli altri due usano quello sinistro.
L’inquietante somiglianza con gli Stati Uniti
Un altro antecedente va segnalato nel giuramento alla bandiera, il pledge of allegiance, in uso nelle scuole degli Stati Uniti a partire dal 1892. Questo rito di fedeltà alla Repubblica veniva accompagnato dal gesto di protendere il braccio in una posa analoga a quella del saluto fascista, una consuetudine che fu poi abbandonata mezzo secolo dopo durante la Seconda guerra mondiale, nel 1942, proprio per via di tale inquietante somiglianza.
Le legittimazione con il kolossal Cabiria
Nel nostro Paese agli inizi del XX secolo contribuì a influenzare l’immaginario collettivo l’avvento del cinema muto, che spesso rappresentava vicende ambientate nell’antichità. Film come Nerone o La caduta di Roma (1909), Agrippina (1911), Gli ultimi giorni di Pompei (1913), Spartacus (1913), Quo vadis (1913) mettono spesso in scena braccia destre alzate per salutare.
Particolare importanza a tal proposito ebbe il kolossal Cabiria, diretto da Giovanni Pastrone nel 1914, che colse un enorme successo di pubblico, anche se nella trama non tutti i personaggi che fanno il fatidico gesto sono romani. Alla sceneggiatura del film partecipò Gabriele D’Annunzio, che poi, con il suo gusto per la politica spettacolare, avrebbe recuperato il saluto durante l’impresa di Fiume.
D’Annunzio «padre» del saluto
Nel 1919 il poeta occupò con i suoi seguaci, chiamati pomposamente legionari, la città adriatica, deciso a reclamarne l’annessione all’Italia. E prese l’abitudine di tenere discorsi dal balcone del palazzo governativo, davanti a una folla plaudente, alla quale rivolgeva interrogativi retorici. I presenti rispondevano «sì» levando il braccio destro.
E così, dopo che D’Annunzio fu cacciato da Fiume nel dicembre 1920, quel gesto si trasmise dai legionari agli squadristi di Mussolini, che proprio in quel periodo cominciavano la loro campagna violenta contro le strutture del movimento operaio e le amministrazioni locali socialiste. D’altronde molti rituali fascisti hanno un’origine dannunziana.
L’imitazione in Germania
Benché filologicamente infondato, il «saluto romano» dimostrò ben presto la sua efficacia come richiamo emotivo. Tant’è vero che, mentre il fascismo al potere lo ufficializzava, in Germania i nazionalsocialisti di Adolf Hitler presero a imitarlo.
Vi fu qualche discussione, nel movimento tedesco, circa l’opportunità di adeguarsi a un’usanza straniera, tanto che Rudolf Hess, luogotenente del Führer, dovette intervenire nel 1928, come riferisce Tilman Allert nel libro Heil Hitler (il Mulino, 2008), per approvare il ricorso a quel gesto: «Coloro che combattono per il nazionalismo allineati sul fronte dei rispettivi Paesi – scrisse il gerarca nazista – dimostrano con l’affinità del saluto di avere un punto in comune e un legame interiore nella lotta contro i comuni nemici internazionali».
La differenze rispetto al saluto nazista
Comunque gli adepti della svastica, ben prima che nascesse l’Asse Roma-Berlino, non si limitarono a seguire l’esempio dei camerati italiani, ma introdussero alcune varianti. Nel saluto nazista il braccio è sollevato più in basso, a mezz’aria, con la mano all’altezza degli occhi. E il gesto è accompagnato dall’esclamazione «Heil Hitler», una sorta di giuramento di fedeltà al capo supremo.
Inutile specificare che pochi mesi dopo la nomina a cancelliere del Führer, nel 1933, il saluto divenne obbligatorio. Chi non si adeguava rischiava una pesante multa e, nel caso si fosse ostinato, anche una pena detentiva.
Starace, il «cretino obbediente»
Intanto in Italia, nel 1931, era diventato segretario del Partito nazionale fascista (Pnf) Achille Starace, definito significativamente da Mussolini «un cretino obbediente».
Svuotato di rilevanza politica dal Duce, che aveva accentrato per intero sulla sua persona la gestione del potere, il Pnf negli anni Trenta si dedicava soprattutto a mobilitare le masse in una serie di manifestazioni esteriori. E a tal proposito Starace insistette sulla necessità che il «saluto romano» sostituisse in ogni occasione la stretta di mano, bollata come «borghese» e poco igienica.
Ma la campagna ebbe un successo solo parziale: capitava che persino esponenti del regime, magari dopo aver alzato il braccio, si stringessero poi le mani in un moto istintivo.
Il saluto romano dopo la Liberazione
Dopo la Liberazione, il «saluto romano» è rimasto patrimonio dei nostalgici del regime. Nelle manifestazioni e nei congressi del Movimento sociale (Msi) era pratica comune. Nel 1949 la rivista americana Life pubblicò con bella evidenza la foto di una folla di militanti missini che facevano il «saluto romano» durante i funerali di Achille Billi, un giovane neofascista morto per un colpo d’arma da fuoco in circostanze mai del tutto chiarite.
Più tardi la legge Scelba del 1952 vietò le «manifestazioni esteriori di carattere fascista», ma sorse presto il problema di coordinare questa norma con l’articolo 21 della Costituzione, che sancisce il diritto dei cittadini di «manifestare liberamente il proprio pensiero» in qualsiasi forma.
La giurisprudenza della Cassazione è giunta alla conclusione che il «saluto romano», oggi usato di frequente dai gruppi estremisti come Forza Nuova e CasaPound, possa essere punito solo nei casi in cui rappresenti un
incitamento alla violenza o prefiguri un pericolo di ricostituzione del Partito fascista. Inutile dire che in questo modo (ma forse è inevitabile) si lascia largo spazio alla valutazione discrezionale dei magistrati.