Corriere della Sera, 28 febbraio 2025
Intervista a Riccardo Cocciante
Chi era Margherita? «Marco Luberti, che ha scritto con me la canzone, mi disse di essersi sognato il testo: non so se dietro a quel sogno ci fosse o meno una donna vera. Ricordo però che all’inizio non mi piacque il nome. All’epoca c’era una pubblicità di una lavatrice o qualcosa di simile con quel nome».
Era il 1976 quando Riccardo Cocciante pubblicò una delle canzoni che hanno fatto la storia della canzone italiana: «In tanti mi hanno detto di aver chiamato la loro figlia così per la canzone».
È una delle canzoni simbolo dell’amore...
«Il 90 per cento dei miei pezzi sono allegorici. Sono come i pittori espressionisti che cercano lo spirito dietro le cose. Solo una volta, con “Vivi la tua vita”, scritta con Mogol per mio figlio nato da poco, sono stato diretto. “Margherita” è arrivata al pubblico in modo atipico: era l’epoca della contestazione politica, pensavo che non avrebbe avuto chances».
E invece...
«È straripata proprio per il contrasto fra il tema dell’amore e il tema della politica che era ovunque».
L’ispirazione?
«Anche qui direi in modo atipico. In genere componevo prima la musica, e ne scrivevo molta, e poi arrivavano i testi, pochi, di Luberti. In quel caso fu il contrario. Mi portò le parole e andammo a cercare fra le idee dei giorni precedenti trovando quella melodia perfetta. Una magia».
Andò a Londra a registrare il disco con Vangelis...
«Mancava un pezzo per chiudere l’album. Gli feci sentire questa chiedendogli un arrangiamento. Si girò e mi disse: “leviamola dal disco”. Anche se non pensavamo ai singoli ma al progetto nel suo complesso, per noi era un pezzo “maestro” e lo convinsi a lavorarci».
Non ha un ritornello...
«Non ho mai creduto che sia l’inciso a dare importanza alla canzone ma quello che dici dentro. Questo veniva dall’amore che avevo per gli chansonnier francesi. Rifiutavo la tradizione e cercavo altro».
Che idea di amore racconta «Margherita»?
«Un ideale di vita, forse perché con mia moglie c’era anche allora lo stesso rapporto intenso. Avevo appena fatto “Bella senz’anima” ed ero considerato “l’arrabbiato”: era anche un modo per uscire da quell’immagine».
Lei è nato a Saigon e a 11 anni la sua famiglia torna in Italia per evitare la guerra civile...
«Non ci sono mai tornato. Prima perché non si poteva, poi perché ho rifiutato l’idea di tornare in quei luoghi così tanto amati. Forse dovrei ripensarci. Ho ancora nostalgia del Vietnam, il ricordo impresso di quegli anni di libertà spensierata, il cibo, il caldo che impari ad accettare».
«Piccolo e brutto». Lo dicevano gli altri, ma anche lei nelle interviste degli anni 80...
«Mi ha fatto male. Ma mi anche fatto cantare. Fu una specie di reazione. Avevo un complesso di inferiorità per la statura. E poi parlavo anche poco. Non ho mai pensato di essere un personaggio presentabile per la tv. La parte mentale è condizionata da quella fisica: non fu piacevole, ma con la musica ho trovato rivalsa. Ho capito che dovevo accettare il mio aspetto, che ero così... E alla fine tutti si sono accorti che il canto rimpiazzava quello che mancava altrove».
Anche il suo modo di cantare, così aggressivo e potente, era una risposta?
«All’inizio non piaceva a molti. Il primo produttore della RCA avrebbe voluto che cambiassi. Quello era il mio modo per esagerare la voglia di rottura totale con il passato. Mi ero ispirato alle voci nere, quelle che per esprimere un sentimento gridavano: Ray Charles, Otis Redding, Tina Turner... A quello stile ho associato la melodia italiana e l’idea, presa dai francesi, che i testi non dovessero dire solo “ti amo”».
Il primo successo fu però nel ’74: «Bella senz’anima».
«Anche in quel caso non era una donna, ma l’espressione della mia rabbia».
In Italia venne censurata per un passaggio evocativo: «E quando a letto lui/ ti chiederà di più»...
«Prima ancora devo dire che la casa discografica aveva bocciato tutto il mio album di debutto “Anima”. Ad un concerto che feci al teatro dei Satiri con Venditti e De Gregori, c’era anche Ennio Melis della RCA: colpito dai brani, decise di rifarli da capo affidando gli arrangiamenti a Ennio Morricone e Franco Pisano».
Un disco travagliato...
«La Rai, allora unica radio, aveva bocciato “Bella senz’anima”. Ero disperato. Mi obbligarono a cambiare il testo e “e quando a letto lui” divenne “e quando un giorno lui”».
A quel punto arrivò il successo?
«Non ancora. Melis si era inventato dei giri promozionali nei locali in giro per l’Italia dove a fine serata si mettevano i lenti. Persino i disc jockey sembravano non volerla... Allora la RCA si inventò questa formula: “se non la metti, non ti do il nuovo Morandi”. La gente finalmente si accorse del pezzo e andò primo in classifica».
Divenne un successo anche all’estero.
«Ci fu una versione in spagnolo. Temevamo la censura del regime di Franco e invece la frase “ahora desnùdate…” la fece esplodere a livello sociale come simbolo di un pensiero di libertà».
Le femministe in Italia non erano contente...
«Ne hanno approfittato. Non c’era nulla di maschilista. Anzi quella forte nella canzone è la donna».
Che ne pensa dei testi misogini della trap di oggi?
«In ogni periodo ci sono state canzoni che hanno urtato la sensibilità delle persone. Più si va avanti più il linguaggio diventa intenso, ma anche negli anni 70 la trasgressione urtava. C’è libertà di parola, per fortuna, ma anche libertà di non sentire».
Lei era lontano dalla politica...
«Non fu piacevole. Se non andavi alla festa de l’Unità venivi escluso. Loro non mi volevano e io non ci volevo andare. Ho dovuto usare altre vie, non volevo entrare in quel giro, che era un giro d’affari».
Cercò appoggi nella DC?
«Nemmeno con loro. Ho rifiutato offerte interessanti ma non ho mai voluto dare un colore a quello che facevo».
La sua opera «Notre-Dame», ispirata al romanzo di Victor Hugo, fa politica: un eroe clandestino...
«Più sociale che politico, termine che rifiuto: racconta la difficoltà di esistere per chi è diverso ed escluso».
L’anno prossimo l’opera tornerà in scena in Italia: ha cambiato qualcosa?
«Faremo nuove audizioni per il cast, questa è la principale novità. “Notre-Dame” continua ad arrivare al pubblico perché non c’è niente che sia solo antico o solo contemporaneo: dai testi alle musiche, dagli abiti alla danza. E poi il tema del clandestino, del diverso, purtroppo appartiene anche ai giorni nostri. Grazie a queste caratteristiche è un’opera che cresce ma non invecchia, è eterna perché racconta metaforicamente pregi e difetti dell’uomo, denuncia le ingiuste barriere di fronte alla diversità».
A Sanremo una partecipazione, una vittoria, nel 1991 con «Se stiamo insieme». Non ci torna per non rovinare il record?
«Ho detto subito dopo la vittoria che non ci sarei tornato perché non mi piace ripetere le esperienze. Per lo stesso motivo non sono tornato a The Voice. Le partecipazioni televisive ti fanno entrare in una macchina che ti usa e ti macella. Diventa più importante quello che si fa e non quello che si è. L’apparire oggi sembra più forte della produzione musicale».
«Bella senz’anima» e «Margherita» l’hanno mai annoiata? Ci saranno in «Io... Riccardo Cocciante», 5 date a marzo a Milano e poi in primavera all’Arena di Verona (13 maggio) e alle Terme di Caracalla a Roma (6 e 8 giugno)...
«Ogni volta che sali sul palco hai il dovere di riscoprire le canzoni e dare una piccola variante nell’interpretazione. Queste canzoni sono cresciute e si evolvono con me. La mia voce cambia nel tempo. E anche l’arrangiamento cambia: per “Margherita”, ad esempio, oggi levo tutto e lascio l’essenziale».