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 2025  febbraio 28 Venerdì calendario

Da 150 anni la Carmen di Bizet continua a dare scandalo

VERSAILLES. Un tuffo nelle acque primaverili ma ancora gelide della Senna. Non esattamente un’ideona. Riemerso dalla nuotata, il giovanotto, già cagionevole di salute, si busca un’angina, seguita da un aneurisma e da un infarto. Fu così che un secolo e mezzo fa, 3 giugno 1875, ci giocammo il povero Georges Bizet nel fiore degli anni, trentasei.
Qualche mese prima, l’esordio parigino della sua Carmen non era stato un fiasco fragoroso, come spesso si sente ripetere, ma un insuccesso che aveva demoralizzato l’artista e avrebbe ammantato la sua morte improvvisa di suggestioni iettatorie, avvolgendola in uno sciame di spassose leggende nere.
Si tramanda che Bizet sia spirato proprio nel momento in cui a teatro la prima interprete di Carmen, la mezzosoprano Célestine Galli-Marié, sfogliava i tarocchi intonando le fatidiche parole: “Ma, se devi morire, se la parola tremenda è scritta dalla sorte /Ricomincia venti volte, la carta impietosa Ripeterà: la morte!... Ancora! Ancora! Sempre la morte!”. C’è poi chi si è fatto due conti: Carmen debutta sulle scene il 3 marzo, Bizet passa a miglior vita il 3 giugno, ossia tre mesi dopo precisi-precisi, e guarda caso si spegne mentre sta andando in scena il terzo atto della 33ª replica. La ricorrenza del numero 3 è più che sospetta: è un lampante segno del destino. Brividi e rumors non finiscono qui.
A Parigi circolò la voce secondo cui Bizet sarebbe morto suicida e la famiglia avrebbe occultato l’accaduto per assicurare al caro estinto funerali religiosi. Un testimone, l’editore musicale Antony Choudens, non aveva forse notato sul collo del cadavere «la trace sanglante» di una ferita autoinferta? Dunque Carmen capolavoro maledetto? Nel caso, solo per il suo autore.
Cercando le origini
Ottobre 1875: Georges Bizet riposa in una tomba del Père-Lachaise; tolta dal cartellone, l’opera emigra a Vienna in versione leggermente riadattata (i dialoghi parlati trasformati in recitativi) e fa il botto. Da quel momento nessuno riuscirà più a fermarla. Ovazioni a Bruxelles, San Pietroburgo, Londra, New York, Napoli… Sull’onda del successo internazionale, tornerà in patria soltanto nel 1883. Oggi, con La traviata, resta l’opera più rappresentata al mondo. E a 150 anni dal debutto, il Théatre des Arts di Rouen la ripropone ora in un allestimento che tenta di approssimarsi il più possibile a quello originario. L’operazione archeo-filologica è realizzata in coproduzione con il veneziano Palazzetto Bru Zane, da anni impegnato nella riscoperta della musica ottocentesca francese. Prima che lo spettacolo partisse in tournée mondiale, abbiamo assistito all’ultima replica nell’augusta cornice dell’Opera Reale di Versailles, teatro inaugurato sotto Luigi XV a condimento delle nozze tra i futuri regnanti, nonché futuri ghigliottinati, Luigi XVI e Maria Antonietta d’Austria.
Sulla base della documentazione reperita negli archivi, il regista Romain Gilbert ha cercato di restituire nella loro forma primigenia posizionamenti e spostamenti di interpreti e comparse. Scene, costumi, luci ricreano invece l’incanto d’ una Spagna di cartapesta, meravigliosa perché posticcia, fantasmagoria di architetture moresche, sordide taverne, plazas de toros brulicanti di guappi, vaiasse, scugnizzi. L’ambientazione andalusa non inganni: Bizet non aveva mai varcato i Pirenei, mentre nel corso del soggiorno italiano (1858-’60) visitò Napoli e non è escluso che la sua Siviglia sia in qualche misura una Partenope en travesti.
Ma torniamo nel triste guado dell’attualità. In Francia, il successo della Carmen versione “historical staging” (quasi 15 mila spettatori) ha acceso una micro-querelle tra conservatori e modernisti – qualsiasi cosa significhino i due termini nell’anno domini 2025. Il nuovo allestimento è stato giudicato dai detrattori nostalgico, passatista, se non reazionario tout court. Con argomentazioni diffuse nell’epoca della post-verità ermeneutica, si afferma d’altronde che la ricostruzione filologica di qualcosa – nella fattispecie la mise-en-scène del 1875 – non può ambire ad alcun primato di autenticità, essendo a sua volta un’interpretazione pari a qualsiasi altra.
Polemicucce d’ una noia cubitale. Non è un caso però che abbiano per oggetto Carmen, l’opera più rappresentata ma forse anche più rivisitata della tradizione lirica. Il cinema se ne appropriò molto presto. Nel 1916 Charlie Chaplin la butta in parodia con il cortometraggio A Burlesque on Carmen. Nel 1954 Otto Preminger porta sullo schermo il musical di Broadway Carmen Jones, dove l’ineffabile gitana è diventata una proletaria afroamericana. Nel 1983 è la volta di Jean-Luc Godard che in Prénom Carmen trasforma l’eroina in pistolera nichilista dell’ultragauche.
Scene da un femminicidio
Le attualizzazioni di Carmen non sono insomma un uzzolo del XXI secolo, anche se è innegabile che negli ultimi decenni abbiano registrato in ambito operistico un’impennata inflazionistica. La zingara ribelle ce l’hanno propinata in salsa Easy Rider, a cavallo di una Harley Davidson, oppure anche virata al punk; migrante sbarcata a Lampedusa; teletrasportata nel Messico dei narcos o tra gli emarginati delle banlieues metropolitane. Nel 2014, a Perth, Australia, lo spettacolo venne annullato perché si erano accorti che nel libretto Carmen fa la sigaraia e le norme antifumo la rendevano impresentabile. Per non urtare la sensibilità animalista, inoltre, ogni riferimento alla corrida è volentieri sbianchettato dagli adattamenti contemporanei.
Qualche anno fa, al Maggio Fiorentino, il regista Leo Muscato rovesciò il finale dell’opera in chiave neo-femminista decidendo che la protagonista non sarebbe morta per mano del maschio, ma lo avrebbe ucciso. Alla prima però la pistola di Carmen s’inceppò e qualcuno lo lesse come un segnale che la moda attualizzante stava andando in panne.
Su un unico punto tuttavia le chiacchiere stanno a zero: tanto l’opera di Bizet che la novella di Prosper Merimée, da cui Henri Meilhac e Ludovic Halévy trassero il libretto, raccontano la storia di un femminicidio fatto e finito. Non ci piove: c’è un Lui, il fosco gendarme Don José, che rivendica il possesso erotico esclusivo di una Lei, la quale però non vuol saperne. Ottenebrato dall’amore tossico, il brigadiere deraglia: per Carmen diserta, si tramuta in fuorilegge, ammazza i concorrenti, poi chiude la faccenda accoppando la “malafemmina” e consegnandosi alla polizia tra i singhiozzi. Carmen afferma la propria libertà radicale, ma nella temperie woke assurge a figura emblematica anche perché al prezzo di un unico biglietto riunisce in sé tre oppressioni: è discriminata in quanto donna, povera e zingara.
Comunque, al di là delle derive modaiole, non si capisce per quale motivo le reinterpretazioni attualizzanti dovrebbero turbare: che la si consideri una femme fatale, una strega, una vamp, un’anarchica o un dongiovanni al femminile, la bohémienne di Merimée/Bizet è un mito moderno che ne rielabora di ancestrali. Dopotutto i miti sono creature mutanti, votate alla metamorfosi, a incessanti reincarnazioni. L’arte non ha mai smesso di riattualizzarli.
Attingendo dai suoi viaggi in Spagna, dei quali diede conto anche in alcuni formidabili reportage giornalistici, Prosper Merimée scrisse Carmen in appena otto giorni. Il racconto, o romanzo breve, uscì nel 1845 sulla Revue des Deux Mondes e in volume due anni più tardi, senza destare scandali.
Riletto oggi non mostra una ruga. La scrittura è secca, disadorna, anti-romantica ai limiti del cinismo. Il testo si conclude bizzarramente con un capitolo di taglio saggistico e quasi etnografico su vita, lingua, costumi degli zingari.
Un trentennio dopo, ricucinata per il grande pubblico dell’opera, la novella verrà depurata dei suoi elementi più crudi e inquietanti, decaffeinata con l’aggiunta di personaggi come la rassicurante Micaëla, alter ego angelicato della diabolica gitana. Ma l’edulcorazione non basterà a trattenere la sferza dell’immancabile critica benpensante.
Carmen esordì nella Salle Favart, tempio parigino dell’opéra-comique, genere di conio francese e natura ibrida, né opera seria né buffa e nemmeno operetta, miscela di dialoghi parlati e numeri cantati. Gli intrecci drammatici sono banalotti, sentimentali, tendenti al larmoyant. L’happy end è d’obbligo.
Ma Bizet sgarra al protocollo. Da qui le suppliche di Alphonse de Leuven, condirettore del teatro, affinché il musicista modifichi il truce finale: «La morte all’Opéra-comique non si è mai vista! Metterete in fuga il nostro pubblico!». Già, perché la Salle Favart non si limita ad accogliere le famiglie borghesi, ma le congegna, funzionando un po’ da agenzia matrimoniale. Presentazioni, incontri, combines, affari: «Ogni sera abbiamo cinque o sei palchi prenotati apposta!» protesta Monsieur le Directeur. Parole al vento. Dopo una vita artistica segnata da esitazioni, fallimenti, progetti abortiti, lavori alimentari, compromessi, Bizet si impunta, irremovibile: la sua Carmen deve morire.
Bollenti spiriti
Figlio di musicisti piccolo-borghesi, Georges non ha l’indole del rivoluzionario, neanche del provocatore. Aborre ogni engagement. Come quasi tutta l’intellighenzia francese, nel 1871 è stomacato dall’insurrezione dei comunardi parigini che verranno presto sterminati. «Pazzi», «canaglie» li apostrofa in una lettera.
Quella in cui Carmen esordisce è una Francia che si va faticosamente stabilizzando dopo un biennio orribile: l’umiliante disfatta nella guerra coi prussiani ha sepolto il Secondo Impero gettando la nazione nel caos. Poi la repubblica è stata ripristinata e adesso a guidarla c’è il maresciallo Patrice de Mac Mahon, generale plurimedagliato, sostenuto dai monarchici. Insediandosi ha promesso di ristabilire nel Paese «l’ordre moral».
Politicamente moderato, Bizet è un uomo d’ordine. Musicalmente vuole piacere, non scandalizzare: «Sento che la mia natura mi spinge ad amare di più l’arte pura e facile che la passione drammatica» confessa. Però sull’innovativa Carmen ha lavorato come un matto e stavolta non è disposto a fare concessioni. Sarà un’opera «gaia, ma di una gaiezza che permette lo stile» annuncia. Ignaro. Da quella gaieté i fustigatori non si lasceranno sedurre. La prima scatena una grandinata di anatemi. In tempi di rinato bigottismo cattolico, la neo-pagana Carmen è scomunicata come una ninfomane, un caso clinico, «un’infelice dedita senza requie agli ardori della carne», «per mettere fine ai suoi ancheggiamenti, bisognerebbe infilarla in una camicia di forza», e per sbollirne la fregola «versarle una brocca d’acqua in testa», tuonano i moralisti.
La veemenza delle stroncature avrebbe oscurato tutto il resto. Non solo il plauso di compositori e letterati, da Gounod e Massenet, da Alexandre Dumas figlio a Théodore de Banville, ma pure la reazione del pubblico in sala, che essenzialmente fu di freddezza e sconcerto. In fondo ancora adesso Carmen è spiazzante: commedia? Dramma? Tragedia? Non sappiamo dove ci troviamo. Sappiamo solo che quel disorientamento ci piace assai.
Nietzsche col fischio
Scambiando la leggerezza per facilità, i più pensosi tra musicologi e melomani la snobbano come un’opera “pour curistes”, per clienti di stazioni termali. Ma è sintomo di vitalità che un classico non si pietrifichi nell’unanimismo, pur sopravvivendo alle fluttuazioni del gusto. Una per tutte: oggi Carmen ci appare come un’apoteosi melodica, all’epoca invece le venne rimproverata una carenza di melodie.
Non certo da Friedrich Nietzsche che nel 1881, al teatro Paganini di Genova, ne rimase notoriamente folgorato precipitando nella dipendenza: «Ho udito ieri – lo credereste? – per la ventesima volta il capolavoro di Bizet» scriveva da Torino qualche anno dopo. «Questa musica mi sembra perfetta. Si avvicina leggera, morbida, con cortesia. È amabile, non fa sudare… È malvagia, raffinata, fatalistica: malgrado ciò essa resta popolare». In un’altra lettera aveva sentenziato: «Nella musica tutto quel che è buono deve poter essere fischiettato».
Se vi capita, fate un fischio agli snob.