Avvenire, 28 febbraio 2025
L’Ue corregge la rotta sul clima, ma non è un bello spettacolo
È impressionante la rapidità con cui la Commissione europea sta smontando quello che è stato il Green Deal. Una alla volta, le regole introdotte negli ultimi anni per limitare le emissioni di gas serra subiscono “correzioni” drastiche, al punto che oggi lo sforzo dei funzionari di Bruxelles sembra teso più che altro ad allentare le norme senza darlo troppo a vedere. È toccato a dicembre alle regole contro la deforestazione, che da quest’anno avrebbero dovuto costringere le aziende a verificare che i prodotti importati non fossero frutto del taglio indiscriminato delle foreste: per ora è stato tutto rinviato di un anno, in attesa di aggiustare il tiro. Sta succedendo alla cosiddetta “carbon border tax”, il meccanismo che impone alle aziende di verificare l’impronta carbonica di ciò che importano da paesi extra-Ue e quindi comprare certificati di carbonio per bilanciare l’impatto sul pianeta: la normativa doveva essere applicata su oltre 200mila imprese, ora è stata limitata a non più di 20mila aziende. Così come sembra sempre più improbabile la futura entrata in vigore di una delle misure simbolo della “svolta verde” europea, lo stop alla produzione di auto con motore termico a partire dal 2035. Il “Clean Industrial Deal” presentato mercoledì ha fatto almeno un po’ di ordine nel ridefinire priorità e obiettivi della strategia ambientale di Bruxelles per quello che riguarda l’industria. Trovare il giusto compromesso tra riduzione delle emissioni, crescita economica e benessere della popolazione è difficile per tutti, non solo per chi fa politica a Bruxelles. L’Europa in questi anni è stata tra i regolatori più attenti – e anche zelanti – nell’elaborare norme per ottenere significativi tagli delle emissioni. Altrove – a partire da Stati Uniti e Cina – non si è fatto molto e in queste settimane a Washington stanno smantellando quel poco che si era messo in piedi. La lotta al cambiamento climatico non ha nessun posto nell’agenda di Donald Trump, mentre Xi Jinping sul fronte ambientale non ha mai mostrato una determinazione ad agire all’altezza dei suoi proclami sulla cooperazione contro la sfida del clima.
La salute del pianeta Terra però è una questione che riguarda tutti, la riduzione delle emissioni di gas serra non è qualcosa che si può fare da soli. Dicono i dati di Edgar, il database sulle emissioni curato dalla stessa Commissione europea, che delle emissioni prodotte nel mondo nel 2023, il 30,1% venivano dalla Cina, l’11,2% dagli Stati Uniti, il 7,8% dall’India e il 6,1% dall’Unione europea. Con uno sforzo considerevole – e anche il triste contributo di una persistente crisi economica a bassa intensità – i ventisette Paesi dell’Unione europea tra il 2022 e il 2023 hanno ridotto le emissioni di gas serra del 7,5%. Abbiamo risparmiato la produzione dell’equivalente di 261 milioni di tonnellate di CO2 mentre il resto del mondo ne ha prodotte 1.255 in più. Ci sentiamo ripetere spesso che l’Europa è troppo piccola per muoversi da sola sulle grandi sfide globali. È certamente così per il contrasto al riscaldamento del pianeta.
Questo ammirevole sforzo solitario è difficile da vendere politicamente. Con il taglio ai gas serra non si prendono voti. L’Ue è stata la prima a ragionare sul concetto di just transition, a capire cioè che la transizione verso modelli di produzione e consumo a emissioni ridotte non può lasciarsi dietro vincitori e vinti. Significa aiutare le persone e le imprese che hanno più da perdere dall’abbandono di attività ad alto impatto ambientale. Soltanto che ora, con le grandi potenze che stanno lasciando scivolare il contrasto al climate change in fondo alla lista delle urgenze, è la stessa Europa a rischiare di diventare vittima della transizione ecologica. Se per ridurre le emissioni rendiamo fuori mercato una dopo l’altra tutte le acciaierie, le cartiere, gli stabilimenti chimici o le vetrerie e sacrifichiamo decine di migliaia di posti di lavoro mentre il resto del mondo va avanti come nulla fosse, finiremo per indebolire la nostra economia senza benefici reali per il pianeta.
Sarebbe una sconfitta che non ci possiamo permettere, ed ecco allora che arrivano queste “correzioni di rotta”. Ma non è un bello spettacolo. Ursula von der Leyen, che nel suo primo mandato alla guida della Commissione è stata una grande sostenitrice di un’Europa verde, dovrebbe spiegare chiaramente quello che Bruxelles ritiene di poter fare davvero. Afflosciare l’impegno climatico fingendo di confermarlo non serve davvero a nessuno. Meglio ribadire la necessità di mediazioni, possibilmente al rialzo, e mettersi seriamente al lavoro per trovarle in concreto.