La Stampa, 26 febbraio 2025
Salviamo Calvino dalla leggerezza
La frase dello scrittore che tutti riportano è stata manomessa e svilita dai social: lui parlava di levità dello sitle e noi ne abbiamo fatto una specie di mantra per life coach.
Lo sento dire da tutte le parti, lo si ripete ovunque. La leggerezza è fondamentale!, Ci vuole un po’ di leggerezza, altrimenti… – non c’è nemmeno bisogno di finire la frase. Altrimenti soccombiamo, altrimenti non ci resta che l’orrore del presente. Altrimenti ci annoiamo, altrimenti ci arrabbiamo. Io della leggerezza sono una grande sostenitrice; sono stata una bambina mingherlina e malinconica, caratteristiche che mi hanno presto incoraggiata a scoprire il potere dell’allegria, lo scalpiccio che spinge verso l’alto chi conosce troppo bene ugge e paturnie, chi avverte il peso del mondo in forma di malumore e sa la forza attrattiva della gravità perché ogni tanto si sente scivolare verso pozzi invisibili in cui cadrebbe, se non fosse appunto per quello scarto imprevisto. È lo slancio della leggerezza, ginnastica dell’umore che non corregge la scoliosi ma aiuta a ridere anche di quella, e così ti costringe a sollevare le spalle un po’ curve e, ancora, a vincere la gravità. Non conoscerei questo slancio se non fossi attratta dalla pesantezza; non conoscerei l’allegria, se non sapessi essere triste. La parola allegria ordisce questo garbuglio dialettico nell’etimologia che l’annoda all’aggettivo alacer: alacre, come chi si premura di mantenersi in movimento, l’unico modo per stare in piedi fra le nuvole. Insomma, sono una fautrice e una praticante della leggerezza. Eppure, quando la sento invocare come qualità essenziale, necessaria, imprescindibile, per vivere, pensare, esistere nella maniera migliore, la più auspicabile (da chi, poi? Forse dalla generica estetica pubblicitaria che ammanta le nostre vite nel tempo che ci vuole fotogenici dentro e fuori)… ecco, di fronte a questi appelli, dentro di me scatta una dissonanza. Sottile, ma distinguibile. Mi sento a disagio: perché?Sicuramente per via della mia abitudine a spaccare il capello in quattro. Prescrivere di essere leggeri è come prescrivere la spontaneità. Ovvero un atteggiamento che non si può imporre né simulare. Mi sembra un’indicazione ingenerosa nei confronti della grazia gentile della leggerezza: la grazia non si può falsificare. Ma c’è dell’altro. Per esempio, il fatto che prima di questo momento di gloria, la leggerezza è stata a lungo bistrattata da una reputazione discutibile: in una notevole convergenza fra pregiudizi misogini e diffidenze nei confronti di tutto ciò che, lieve, si contrappone alla gravitas più profonda e professorale, fino a non molto tempo fa accusare una donna di essere leggera era una forma di scherno, una contumelia tanto più volgare per via della forma elegante, tesa a mettere in luce comportamenti considerati poco virtuosi, volubilità capricciose che, grazie al cielo e a oltre un secolo di lotte femministe, oggi hanno cambiato segno e ci appaiono sintomo di carattere e di vitalità. Ma è ancora relativamente vicino il tempo in cui l’etichetta di leggera (o leggerina, o leggerotta), funzionava da congegno di controllo di condotte, corpi, desideri.
Non sarà dunque che l’urgenza di spennellare leggerezza a destra e a manca sia un tentativo di ammenda per i tanti torti che ha subito? Quella che conosce oggi è vera gloria, o nasconde un equivoco simile a quello che per troppo tempo l’ha confinata al rango d’ingiuria?
E qui vengo al malinteso che credo sia la vera causa della mia sensazione dissonante di fronte agli elogi di quest’adorabile qualità aerea. Al centro c’è una frase che compare con frequenza impressionante, quando si parla di leggerezza: sui social, nei monologhi televisivi, nelle recensioni di libri, nelle conversazioni. Una frase che si cita attribuendola a Calvino, addirittura situandola nelle sue Lezioni americane; solo che non compare nelle Lezioni americane, e non è nemmeno una frase di Calvino. La frase la conoscete: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».
È una parafrasi della prima delle Lezioni americane – dedicata, in effetti, alla leggerezza – a opera di un’autrice di Cuneo, Mattea Rolfo, che non ha nessuna responsabilità nella mistificazione: semplicemente, quella sua glossa al testo calviniano, come una bottiglia dispersa nel mare della rete è finita nel vortice delle condivisioni sui social, che ne hanno decretato il successo trasfigurandone l’origine, senza che di controllare la fonte si prendesse la briga nessuno, o quasi. Giovanna Calvino, la figlia di Italo, aveva segnalato già anni fa, proprio via social, i suoi dubbi sull’autenticità della frase, e la vicenda della citazione apocrifa, ricostruita con divertita acribia filologica da Giuseppe Regalzi, è ricapitolata nei dettagli da Luigi Bruschi nel suo blog “La città invisibile”. Colpisce, però, che malgrado l’aforisma sia stato da più parti indicato come spurio, lo si continui a citare con entusiasmo e, senza dubbio, con molta leggerezza. Le ragioni del successo della massima coincidono, credo, con quelle della mia diffidenza. Laddove la riflessione di Calvino sulla leggerezza è una riflessione di poetica, la parafrasi trasferisce il discorso dal piano letterario a quello puramente esistenziale. Ma Calvino nelle Lezioni riflette sul lavoro autoriale, non dispensa consigli di vita: consigli di cui, come rivela il successo dell’apocrifo, oggi siamo tanto affamati da precipitarci a raccoglierli senza concedere alla letteratura la possibilità di rimanere un gioco che proceda non per prescrizioni, ma per sottrazioni di peso.
Soprattutto, penso che se fossimo davvero capaci di leggerezza, sapremmo distinguerla, senza bisogno di giustificazioni, dalla superficialità. Sapremmo che non esiste baritonale intonazione di profondità che valga quanto la magnifica, lieve sprezzatura del non prendersi sul serio, dell’osare essere gentili, aerei, lievi, anche guardando in faccia quello che ci spaventa.