La Stampa, 26 febbraio 2025
Intervista a Bianca Pitzorno
Bianca Pitzorno, nata a Sassari, vive a Milano da una vita ed è una delle scrittrici più amate d’Italia: autrice di molti libri per ragazzi, da vent’anni è passata a scrivere romanzi per adulti, e a chi le chiede il motivo risponde sbuffando. Perché si cambia, spiega, e perché ogni sette anni le nostre cellule si rinnovano e il corpo si rigenera, quindi noi diventiamo altri. Pensando al tema del prossimo Salone del Libro, le abbiamo chiesto di raccontarci che cos’è per lei la leggerezza, nel lavoro, nei sentimenti e nei pensieri.
C’è chi la immagina leggera perché ha scritto a lungo libri per ragazzi. Chi l’ha letta però sa che le sue storie sono intense, tutt’altro che leggere.
«Leggerezza significa trattare un argomento con un minimo di distacco e con rispetto per il lettore, a cui non per forza bisogna chiedere uno sforzo sovrumano. Io adoro l’Orlando Furioso: ha una trama con momenti cruenti, ma c’è sempre una specie di leggerezza, appunto, e non solo per via dell’ironia ariostesca; è proprio questo vedere il mondo con una forma di meraviglia complice. Orlando è innamorato e non ricambiato, e il suo dolore, la sua pazzia, sono trattati come una cosa buffa, tanto che la sua ragione perduta va a finire sulla luna. E sulla luna che cosa c’è: le lacrime e i sospiri degli amanti, “il tempo che si perde al gioco”. Perché la vita in fondo è un gioco. Pensiamo invece alla Gerusalemme liberata di Tasso: anche lì c’è la guerra, ci sono i cristiani e i saraceni, ma a differenza dell’Orlando è una pizza. Povero Torquato, non ci dà un momento di leggerezza. C’è Clorinda, donna che passa per guerriero, che povera crista viene riconosciuta dal suo innamorato in punto di morte, e quando lui la riconosce che fa? La battezza. Che strazio».
Un suo libro s’intitola La vita sessuale dei nostri antenati spiegata a mia cugina Lauretta che vuole credersi nata per partenogenesi. Possibile che gli antenati fossero più audaci, leggeri e magari felici di noi?
«Appartengo a una famiglia di chiacchieroni e ci siamo tramandati aneddoti. Da quello che so, i miei antenati, maschi e femmine, vivevano con grande leggerezza; era anche una famiglia fortunata, perché benestante. La sorella della mia bisnonna era sposata con un avvocato avarissimo e di questo soffriva molto. Si inventò, per mandare le figlie in società, dei vestiti fatti in casa con delle stoffe raccattate, che poi mise negli scatoloni della propria dote fingendo che arrivassero da Parigi. E quando compì cent’anni comprò un’automobile. Non guidava lei, poverina: faceva venire un mezzadro dalla campagna che la portava in giro con un cappello da chauffeur. Così ha girato tutta la Sardegna. Verso i centocinque anni ha cominciato a sbarellare, ma voleva uscire tutti i giorni, e chiedeva: “Oggi andiamo in Svizzera?”, e lui “Certo signora”, e le faceva fare quattro o cinque volte il giro dell’isolato, a Sassari, con lei molto contenta di aver visto la Svizzera».
Il sesso può essere leggero?
«Fino a quando non sono stati diffusi i contraccettivi, per le donne era soltanto pericolosissimo. Una gravidanza indesiderata era un peso anche se una era sposata, figuriamoci per chi non lo era. Mie coetanee rimaste incinte da nubili hanno vissuto drammi veri: fratelli che le picchiavano selvaggiamente sperando di provocare un aborto spontaneo. La pillola è stata una liberazione enorme. A quel punto era tutta un’orgia, sembrava di doversi vergognare se si era vergini: bisognava farlo per essere aggiornate. Penso però che, anche oggi, il sesso sia una delle pochissime attività umane che vanno prese molto sul serio».
La leggerezza stride con il nostro tempo? Col caos, le guerre, i disastri climatici, le destre al potere?
«Ogni tanto mi dico: sono nata sotto il fascismo e rischio di morire in un’Italia fascista. Singolarmente cosa si può fare? Certo, possiamo votare, liberarci dalle idee false. Fare qualcosa nel lavoro, nei rapporti con gli altri. E se uno fa tutto quello che può, non si deve caricare dei sensi di colpa per ciò che fanno gli altri. Io di certo non voglio passare la giornata a pensare a Elon Musk».
È stata collega di Cino Tortorella. Ha detto che è stata madrina dei suoi amori, dei suoi figli e dei suoi progetti. E che lui era un intellettuale, perciò le dispiace che sia ricordato solo come il Mago Zurlì.
«L’ho incontrato nel 1970, appena assunta in Rai. Il sabato pomeriggio andava in onda Chissà chi lo sa?, che tutti associavano al conduttore Febo Conti: non sapevano che l’autore e regista era Cino. Lo chiamavano Mago Zurlì, ma lui faceva il Mago Zurlì tre giorni all’anno. Aveva studiato giurisprudenza, era un grande lettore. In prime nozze aveva sposato Jacqueline Perrotin, madre del suo primogenito Davide, una musicista raffinatissima, autrice delle musiche degli spettacoli di Paolo Poli. Il background culturale di Cino era incredibile, anche se veniva da una famiglia semplice: in casa con loro c’erano la madre e la zia, arrivate da Ventimiglia ma originarie della Lucania, che parlavano in lucano, in grembiule nero. Ero sempre a pranzo lì. In Rai c’erano tanti che si pensavano artisti e si davano arie. Cino era molto più artista di tutti loro. Poi era un grande tombeur de femmes, usciva con un sacco di sceme, e spesso mi chiedeva di reggergli il gioco. Siamo stati grandi amici fino alla fine. Morivamo dal ridere».
Quando si è più divertita nella vita?
«Ho fatto l’università a Cagliari: sarei dovuta andare in collegio dalle suore, ma non volevo e chiesi di essere mandata a pensione da una famiglia. Da questi Lombardini però non mi trovavo bene, e scoprii invece che le mie amiche in collegio si divertivano molto, anche perché violavano le regole. L’anno dopo pregai i miei di trovarmi un posto lì».
Che cosa facevate?
«Dopo cena ci riunivamo in una sala comune. Io e altre cinque avevamo una piccola compagnia teatrale; le altre ci davano dei titoli assurdi, tipo: “Come maritare una figlia balbuziente? Ovvero: anche l’occhio vuole la sua parte”, oppure: “Il silenzio vermicolante del secchio che canta”. Avevamo dieci minuti per imbastire uno spettacolo. Poi le suore erano simpatiche, e il primo aprile cercavano me, che mi prestavo volentieri, e mi travestivano da suora; mi mettevano un pezzo di cotone in bocca per alterarmi i tratti, e mi disegnavano i baffi. Posto che tutte noi sarde un po’ di baffi li abbiamo già. Comunque: oltre alle universitarie in convitto, nell’istituto c’erano le elementari, le medie e il liceo, e io mi dovevo fingere una suora ispettrice mandata dalla casa madre, e interrogare le ragazze e le insegnanti (che erano laiche). Con questo trucco le furbe, maledette suore, controllavano tutto. Io mi divertivo da morire».
Non si è mai sposata perché, ha detto, non ha mai incontrato un uomo che in casa smettesse di essere maschio.
«Volevo un uomo che condividesse perfettamente i compiti. Non dico che non esistessero, ma io non ne ho incontrati, e allora al gioco di fare la serva non ci sono voluta stare. Non è stata una decisione, è andata così».
Da soli si è più leggeri?
«Sì e no. Poniamo: doversi organizzare per andare al cinema. Io se voglio vedere un film devo telefonare in giro a diverse amiche e amici, vedere che impegni hanno. Se vivi con una persona, ti alzi da tavola e dici: che facciamo, ti va un cinema? Poi invece ci sono le volte in cui vuoi stare per i fatti tuoi, e allora vivere da soli è bello».
E quando la solitudine in casa pesa, come la allevia?
«Leggo».