La Stampa, 26 febbraio 2025
Il Belcanto è tutta un’altra cosa, così la fiction tradisce Puccini.
D’accordo, è una fiction, quindi un certo margine di fantasia e magari di libertà e perfino di errore è tollerabile. Ma qui si esagera, perché se si tocca la storia un minimo di autenticità ci vuole. Se metto in scena gli antichi romani mettendo loro l’orologio al polso, allora vengono superati i limiti non del vero, ma del verosimile: e si approda al ridicolo. È quel che succede con Belcanto, incredibile sceneggiato di Raiuno che dovrebbe raccontare il magico mondo dell’opera italiana ottocentesca. Siamo nel 1847, a Napoli, dove mamma Vittoria Puccini ha un marito violento e due figlie, una carina cui ha insegnato a leggere, scrivere e cantare e l’altra lasciata allo stato di selvaggia nemmeno tanto buona. Dopo aver ucciso il padre padrone per non essere uccise da lui, le tre donne traslocano a Milano a cercare fortuna a teatro, e già qui non tornano i conti perché negli anni Quaranta dell’Ottocento Napoli era una «piazza» operistica più importante di Milano, e il San Carlo più prestigioso della Scala.
Il problema è che chi ha scritto la sceneggiatura non ha la minima idea di cosa stia parlando. Come se il soprascritto scrivesse un libretto su un ingegnere nucleare: possibile, ma a patto di documentarsi un minimo. Qui invece si tengono audizioni in perfetto stile X Factor nel teatro del Palazzo Reale di Napoli, insomma a casa Borbone; come se si facessero le prove di un musical del West End nella Ballroom di Buckingham Palace. Le lezioni di canto vengono impartite senza il pianoforte (che poi all’epoca sarebbe stato più un fortepiano) e consistono nel muovere a caso le braccia. Chi «insegna» è un ragazzo munito di barba e morosa che però lo zio vorrebbe far castrare per la Cappella Sistina: d’accordo che l’ultimo evirato morì nel 1922, ma a metà Ottocento ormai di ragazzini se ne operavano (pochissimi) solo nello Stato pontificio e in ogni caso garantisco che castrare qualcuno dopo la muta è una crudeltà inutile perché la laringe si è già abbassata e addio voce bianca. Di musica se ne sente poca: frammenti di Casta diva e della Furtiva lagrima (cantata nel suo salotto da un tenore – peraltro cane assai – cui ne scende contestualmente una sulla guancia, ciao core) più l’Ave Maria di Schubert e il suo Trio opera 100, quello di Barry Lyndon, riarrangiati in chiave pop con la batteria, un horror che non si sentiva dai tempi del Mozart del Rondò Veneziano. Ma nelle prossime puntate incombe anche Va pensiero cantato a voce sola, come se fosse un’aria invece di un coro.
La ricostruzione d’ambiente è una barzelletta a parte. Nel 1847, Puccini (intesa come Vittoria) apostrofa la figlia dicendole «datti una mossa», a Napoli si parla napoletano stretto con tanto di sottotitoli ma appena si passa a Milano i popolani misteriosamente si esprimono in italiano, chissà, avranno tutti letto I promessi sposi, e niente sottotitoli nemmeno quando i soldati austriaci sbraitano in tedesco. Le canzoni popolari vengono cantate in perfetto stile Sanremo, il teatro della Canobbiana, attuale Gaber ed ex Lirico, sembra proprio il Fraschini di Pavia, eccetera.
E dire che basterebbe mettere in scena le vite, chessò, di Domenico Barbaja o di Maria Malibran o di Giovanni Matteo de Candia in arte Mario (magari recitando un po’ meglio, però). Sarebbero delle fiction movimentate e istruttive, divertenti e appassionanti, molto più piene di colpi di scena di questa spremuta di luoghi comuni. Certo, prima bisognerebbe conoscerle. Studiare non sempre risolve, ma spesso aiuta.