Corriere della Sera, 26 febbraio 2025
Intervista a Nicola Legrottaglie
L’ex difensore, che ha giocato anche in Nazionale, si racconta:«Alla Juve arrivai in bermuda. La fede? Mia mamma mi portava a Messa, poi sono uscito dai binari. È morta per un tumore ma mi ha donato Gesù. L’astinenza con mia moglie? Il sesso è come il caffè: troppo fa male». Nicola Legrottaglie, il suo primo ricordo?
«Il letto diviso con mio nonno. Aveva 8 figli, una volta rimasto vedovo li ha riuniti tutti. “Non voglio restare da solo”, disse. E così i miei genitori se lo portarono a casa. La famiglia mi ha fatto capire che chi viaggia da solo magari va più veloce, ma chi viaggia con gli altri va più lontano».
Chi vorrebbe riabbracciare?
«Mia madre, Lucia. Ha sempre vissuto in un mondo più grande di lei. A 4 anni era già nei campi a servire i fratelli, a 52 si è ammalata. Tumore al colon, un carcinoma di 9 centimetri con cui ha dovuto fare i conti per tanto tempo. Quattro operazioni, una serie di recidive, poi è volata in cielo. È stata la persona più importante della mia vita, quella che mi ha fatto il regalo più grande: conoscere Dio».
Nicola Legrottaglie ha 48 anni, ha vinto uno scudetto col Milan e una Supercoppa italiana con la Juventus, con cui ha messo insieme oltre 150 presenze, 16 quelle con la Nazionale. Poi ha fatto l’allenatore, il dirigente (nella Samp di Pirlo l’ultima esperienza) e il commentatore tv. Nel mezzo un percorso religioso che lo ha portato ad avvicinarsi agli Atleti di Cristo, a frequentare la chiesa evangelica e a sostenere che la fede in Gesù gli abbia permesso di cambiare vita e tornare a giocare a grandi livelli.
E ora?
«Dedico la maggior parte del tempo a mio figlio Pietro, di 10 anni. Lo accompagno a scuola, poi a calcio e a tennis. È bravo in entrambi, fra poco dovrà scegliere».
E cosa consiglia papà?
«Il rischio è che il figlio voglia accontentare il padre e questa è l’unica cosa che temo».
Lei si affida al Signore.
«La mattina medito sulla mia parte interiore. Ricordo alla mente quanto è importante vivere secondo i principi giusti. Dentro di noi sappiamo cosa è giusto e cosa è sbagliato. Se abitui la coscienza a fare cose sbagliate, potrebbe non segnalarti più cosa è giusto. E questo genera disagio e ferite interiori. Prima o poi il dolore si manifesta. Quel senso di giustizia a cui affidarsi te lo dà Dio».
È sempre stato credente?
«Oggi prego e leggo la Bibbia, ma già da piccolo mia madre mi portava a Messa e a catechismo. Poi diciamo che sono uscito dal binario».
Le meches bionde, l’aria da «fighettino», la fama di festaiolo e donnaiolo.
«Volevo conformarmi alla massa, mi sentivo in dovere di fare certe cose per non apparire come uno sfigato. Dovevo impressionare, andare dalle ragazze, portare a casa numeri di telefono. Alle feste ci vado anche oggi ma con la differenza che faccio ciò che mi fa stare bene».
Quando il cambiamento definitivo?
«Nel 2005, quando la Juventus mi manda in prestito al Siena. Lì incontro Tomás Guzmán, centravanti paraguaiano, che mi avvicina agli “Atleti di Cristo”. Mi ha stimolato, con lui ho capito che la fede non era miraggio ma concretezza. Siamo ciò che scegliamo e delle volte le mie scelte mi hanno fatto sentire sporco. Poi ho sperimentato il concetto di amore incondizionato. Dio non ti ama perché ti comporti bene, ti ama e basta. Mi sono sentito perdonato, ho chiesto scusa a molte persone e ho risolto certe situazioni. Oggi vado anche nelle scuole per spiegare che la fede non è religione, ma uno stile di vita».
Ha scritto anche dei libri.
«Quattro, il primo (“Ho fatto una promessa”) è stato un successo. Ha venduto 140mila copie, venendo tradotto anche in polacco. Un giorno ero a Catania, vivevo un momento di scoramento personale. Stavo scendendo le scale dell’ospedale e un uomo mi ha rincorso, fermandomi. Mi ha abbracciato. “Grazie per quelle pagine. Ero depresso, ho pensato al suicidio, ma per me hanno rappresentato una svolta”».
La sua in campo quale fu?
«Il Chievo dei miracoli. Ho avuto più di 20 allenatori, da Trapattoni a Lippi, da Allegri a Mazzone e Capello, ma quello che mi ha insegnato cose nuove è stato Delneri. Mi ha fatto giocare come voleva lui, seguendo solo la palla e mai gli avversari, coprendo zone di campo che non avevo mai calpestato. Prima di incontrarlo, ero uno istintivo, allergico alle regole».
Infatti si presentò alla Juve in bermuda e infradito.
«Era l’estate del 2003, ero in vacanza al mare. Alla sera avevo l’accordo con la Roma di Sensi, ma la mattina seguente il Chievo trova quello con i bianconeri. Mi chiama il procuratore. “Vieni subito a Torino”. Arrivo dalla spiaggia, entro in ufficio e mi trovo davanti Moggi, Giraudo e Bettega. “Da qui non te ne vai, firmiamo subito”, mi dice quest’ultimo. Poi mi porta direttamente davanti ai giornalisti per la presentazione. Non ho avuto il tempo per cambiarmi, per quelle foto vengo massacrato da 25 anni».
Legrottaglie
Cosa è andato storto nella prima esperienza alla Juve?
«Nei primi tre mesi sono stato il migliore in campo, ma purtroppo soffrivo di una pubalgia cronica. Aldo Esposito, massaggiatore della Nazionale, me lo disse subito. “Non so quanto potrai andare avanti in queste condizioni”. A Torino giocavo tre volte a settimana, la pubalgia si infiammava e mi impediva di lavorare sulla forza. Non reggevo l’urto degli avversari e ho iniziato a sbagliare perdendo fiducia».
Dove ha conosciuto sua moglie Erika?
«A Milano, a un evento cristiano».
Insieme avete praticato l’astinenza.
«L’atto sessuale dev’essere visto come qualcosa che porta beneficio senza essere inquadrato in un ordine prestabilito. Funziona come con il caffè: è buono, ma se ne bevi sei al giorno fa male. Chi usa il sesso in maniera sconsiderata poi ne paga le conseguenze. Quando vai al ristorante e ti abbuffi, sul momento ti piace. Poi però devi andare alla cassa e pagare il conto».
L’aborto lede la libertà?
«Bisogna capire il contesto, non si può generalizzare. Il problema però non è impedire al bambino di venire al mondo. Non toccherà mai la terra, ma ciò vuol dire che volerà direttamente nel meraviglioso mondo di Dio. Piuttosto bisogna prendersi cura di chi resta e non riesce a liberarsi dal senso di colpa».
Legrottaglie
E le unioni omosessuali?
«Dio ama tutti, senza distinzioni, e vuole che ciascuno di noi sia felice. Davanti alle scelte altrui ci deve essere sempre il massimo rispetto. Io lo porto a te e tu lo devi portare a me. Devo avere la possibilità di non condividere senza per questo essere accusato di omofobia».
Perché ha lasciato la Sampdoria dopo un anno?
«Mi aveva voluto il presidente Raddrizzani con cui condividevo una certa visione. Quando è andato via lui, ho dovuto salutare anche io con grande dispiacere. Ci ho messo l’anima, raggiungendo l’obiettivo dei playoff. La situazione di partenza era disastrosa, con milioni di debiti e il rischio del fallimento. Dovevamo ricostruire un palazzo dalle fondamenta ma è mancata pazienza».
Cosa vede davanti a sé?
«Voglio continuare a essere me stesso in un mondo difficile dove però alla lunga verranno cercate le persone di valore. Quando succederà, mi farò trovare pronto, anche nel calcio. Dirigente, allenatore o opinionista tv. Mi piace tutto, l’importante è che ci sia un pallone nel mezzo».