Avvenire, 26 febbraio 2025
Disturbi psichici dei migranti in fuga dalle torture
«Essere rifugiati è davvero un destino traumatico di per sé. Tocca una sorte particolare a chi è forzato a lasciare il proprio Paese» riflette a voce alta la dottoressa Lilla Hárdi, psichiatra, psicoterapeuta e direttrice sanitaria della Cordelia Foundation di Budapest. Da quasi trent’anni si occupa dei traumi di chi attraversa i confini ungheresi e chiede protezione. Ha istituito la fondazione nel 1996 per offrire psicoterapia ai sopravvissuti alla tortura e ai richiedenti asilo gravemente traumatizzati che cominciavano ad arrivare. Appena due anni dopo, un giovane Viktor Orbán, al suo primo mandato, diventava capo del governo. Dalle parole e dai racconti della dottoressa Hárdi, dalla sua esperienza di cura, emerge chiara la necessità di intervenire non solo per il benessere della persona traumatizzata ma anche per il nuovo contesto in cui sarà introdotta, per coloro che avranno a che fare con lei, per la società che, volente o nolente, la accoglierà. «Certo che è un rischio lasciar girare per le strade chi, per un precedente evento traumatico, è affetto da psicosi, o soffre di comportamenti instabili, pensieri suicidi o omicidi – spiega la psichiatra –. Questo può influenzare la vita quotidiana di una comunità». I n un’epoca di confini militarizzati, corsa al rimpatrio di chi li varca irregolarmente e di accordi con Paesi extra Ue per trattenere gli indesiderati sulla soglia dell’Unione, si finisce per affrontare la questione dello stato psicologico dei richiedenti asilo solo in casi estremi, quando qualcosa di irreparabile è già accaduto. Si pensi all’attacco di gennaio in un parco di Aschaffenburg, in Baviera, dove sono morti accoltellati un bambino di due anni e un uomo, un crimine per cui è stato arrestato un giovane afghano che aveva già manifestato problemi di salute mentale. L’Associazione federale tedesca dei centri psicosociali per rifugiati e sopravvissuti alla tortura ha fatto sapere, commentando la notizia, che «la necessità di sostegno psico-sociale per i rifugiati supera di gran lunga l’offerta. I tempi di attesa per andare in terapia sono in media di 5,7 mesi, in alcuni casi fino a 21 mesi». L’Unhcr fa notare che, secondo la maggior parte degli studi sul tema, «almeno un richiedente asilo o rifugiato su tre soddisfa i criteri diagnostici per depressione, ansia e disturbi da stress posttraumatico». E tuttavia, sottolinea l’agenzia Onu, «spesso si tratta di reazioni naturali a eventi avversi e traumatici correlati a conflitti, guerre e sfollamenti. È quindi importante non patologizzare l’intera popolazione di rifugiati e non etichettarla. In molti mostrano una notevole resilienza e riescono a superare le sfide emotive».
C’ è la resilienza e c’è anche la cosiddetta crescita post-traumatica, di cui ci parlano alla Cordelia Foundation. «A volte una persona è sopraffatta dal trauma, ma è possibile lavorarci, è il motivo per cui svolgiamo quest’attività da così tanto tempo. Un vissuto difficile può rivelarsi una sorta di possibilità per sviluppare il potenziale di ciascuno. Vediamo spesso come le persone ce la facciano, uscendone con più forza di quella che avevano prima», spiegano le terapeute della fondazione. Con i suoi team mobili e diciassette tra psichiatri tradizionali ed esperti in terapia non verbale, Cordelia fa parte dell’International Rehabilitation Council for Torture Victims (Irct). Non riceve supporto dallo Stato, «non è mai accaduto, nemmeno quando c’era un altro governo. Abbiamo invece il sostegno di fondi Ue, in alcuni periodi di Unhcr» spiega la fondatrice. «Dagli anni Novanta abbiamo messo a punto metodi speciali di trattamento, verbali e non, adattando la terapia a questa specifica popolazione. Ricordo, per esempio, il lavoro con i ragazzi di una minoranza etnica somala che avevano subìto i più elaborati tipi di tortura. Il 95% presentava sintomi seri di disturbo da stress post-traumatico». Poi ci sono state le sessioni con gli iracheni. «Quando abbiamo cercato di capire se avessero sperimentato la tortura, loro hanno sorriso, dicendo che in Iraq all’epoca di Saddam Hussein non c’era nessuno che non avesse vissuto esperienze del genere. Per noi, la riabilitazione delle vittime è un atto di difesa della democrazia. Il nostro scopo come centro dell’Irct è quello di sradicare la tortura ovunque ancora ci sia». V ent’anni fa in Ungheria esistevano campi per rifugiati, la fondazione vi operava all’interno in collaborazione con lo staff governativo e «il servizio funzionava bene». I campi sono stati chiusi dopo il 2015, con la stretta ai confini. «Ai pochissimi che oggi riescono a entrare offriamo cure, ma la maggior parte viene respinta verso la Serbia – aggiunge la dottoressa –. Per l’orientamento politico del nostro Paese tra il 2019 e il 2020 la fondazione è stata a un passo dalla chiusura, perché non c’erano praticamente più rifugiati». Poi è iniziata la guerra in Ucraina e gli ungheresi da principio si sono dimostrati entusiasti all’idea di aiutare gli ucraini. «Ora anche quell’entusiasmo non è più così forte. In trent’anni l’atteggiamento della popolazione è stato molto trasformato dalla narrazione pubblica dell’emergenza e dell’invasione – sospira la psicoterapeuta –. Un tempo l’Ungheria era accogliente. Le cose sono cambiate».
L a sua fondazione intanto prosegue l’attività, e il focus è sempre lo stesso. «Il trauma è iscritto nel corpo, codificato a livello somatico. In caso di specifici gruppi nazionali, come i somali e ora gli ucraini, ci concentriamo sul trattamento del trauma collettivo che tende a isolare le persone. Pur avendo sperimentato collettivamente gli stessi eventi traumatici, gli individui non comunicano tra loro – spiega la dottoressa –. Noi facilitiamo il processo di comunicazione e di mutuo aiuto, la coesione del gruppo». Molto efficaci allo scopo si rivelano le tecniche di terapia non verbale, come l’arte visuale, l’impiego della musica, il teatro, il movimento. «Personalmente uso la musica che ha il potere di interrompere il circolo patologico dei pensieri e permette di unirsi tra persone e connettersi a un momento sicuro» interviene la terapeuta Eszter Szarka. «Non si sa mai cosa accadrà in una sessione – aggiunge la collega Izabella Klein –. Di recente dovevamo incontrare un’anziana donna ucraina nel centro dove vive, ma all’incontro si sono aggiunti alcuni suoi amici. La signora ci ha mostrato sul cellulare un video del nipote ferito al fronte e che dal letto d’ospedale intonava una canzone. L’abbiamo ascoltata e in cerchio, abbracciati, cantato la stessa melodia. È stato un momento intenso, ricco e spontaneo, un momento di guarigione. Il tentativo è sempre quello di restare nell’attimo presente, perché il qui e ora sono sicuri, la stanza in cui ci troviamo è al sicuro. Colui che ha un trauma appare come congelato, bloccato. L’arteterapia ha il pregio di riportare ad agire le persone, a compiere un’azione». Anche solo abbozzare un disegno su un foglio può essere il primo passo. «In definitiva – conclude Eszter Szarka –, mentre guerre e torture sono disumane, con l’arte noi portiamo qualcosa di davvero umano in una storia collettiva di violenza»