Avvenire, 26 febbraio 2025
"Paleoestetica": l’arte appartiene alla natura dell’uomo
Graffiti, dipinti e sculture, le tracce dei nostri progenitori interrogano gli studiosi. Le conoscenze sono cambiate, ma non le esigenze cognitive e creative.
Fino a pochi decenni fa si supponeva che le pitture parietali del paleolitico fossero essenzialmente presenti nelle grotte del vecchio continente. Le più recenti scoperte hanno dimostrato invece che un po’ ovunque nel globo l’Homo sapiens, e forse qualche ominide prima di lui, ha prodotto immagini nella forma di graffiti, dipinti, sculture, rivelando come l’arte abbia accompagnato l’intera sua evoluzione. Un prezioso libro di Michele Cometa (che insegna Cultura visuale all’Università di Palermo), Paleoestetica, alle origini della cultura visuale (Raffaello Cortina Editore, pagine 323, euro 26,00), indaga le pitture preistoriche rinunciando per quanto possibile ad attribuire ad esse degli impliciti significati, concentrandosi piuttosto sulle capacità cognitive dei nostri antenati. Perché i nostri progenitori fecero arte? Quali erano i contesti fisici delle loro espressioni visive? Lo studioso muove emblematicamente nel suo libro da un riferimento suggestivo ed esemplare, la “Grotta delle incisioni”, scoperta negli anni Cinquanta nel circondario di Palermo, ai piedi del Monte Pellegrino, nella zona dell’Addaura.
«La lettura di quelle immagini – afferma lo studioso – è affascinante, può procurare una sorta di estasi perché in esse, qualunque siano i significati che i nostri antenati avessero voluto rappresentare, noi ci riconosciamo: esse in qualche modo ci parlano, fanno appello alle nostre emozioni, attivano la nostra immaginazione». Ma perché l’uomo preistorico ha sentito il bisogno di dipingere sulle pareti delle caverne, pure in condizioni difficili, in ambienti non sempre agevolmente praticabili? E soprattutto: la sua testimonianza può essere confrontata con le espressioni visuali dell’uomo di oggi? La tesi rigorosamente e scientificamente esposta ed elaborata da Cometa è che talune risorse espressive appartengono alla natura dell’uomo e che, in particolare, alcuni meccanismi cognitivi sono di fatto restati sostanzialmente identici, siano cioè caratteristici dell’Homo sapiens. Per dimostrarlo lo studioso prende in esame tre “oggetti” che hanno strutturato la nostra immaginazione visiva sin dalle origini: le superfici, le miniature, gli ibridi, veri e propri dispositivi paleolitici provenienti da profondità immemorabili e ancora oggi in uso. Oggi come allora l’uomo sente il bisogno di affidare ad una superficie la propria tensione fantastica, di fissare su di un supporto immagini della mente di cui si sarebbe perduta la traccia, creando uno spazio intermedio tra il sé e la realtà fisica. Nella preistoria tale supporto era identificato con la parete di una caverna, oggi può essere ritenuto lo schermo di un tablet. Allo stesso modo, spiega Cometa, il bisogno di creare miniature, ossia figure umane e animali di ridotte dimensioni, sembra rispondere ad una esigenza insieme estetica e cognitiva, di “controllare” il mondo, potrebbe dirsi, tenendolo nel pugno di una mano. Anche la creazione di figure ibride, per metà umane e per metà animali, è resa possibile da una capacità che presiede alla creatività umana, il blending. Ed infatti ancora oggi, anche se apparentemente siamo lontani da una visione animistica e totemistica, produciamo ibridi animalumani, basti pensare alla fortuna di molti odierni fumetti.
L’approccio scientifico dell’autore si ispira in effetti alle acquisizioni recenti delle neuroscienze cognitive, applicate già in passato alla “teoria della narrazione” e definita svolta bioculturale delle humanities. E tuttavia, chiarisce Cometa, fare ricorso alle neuroscienze non significa rinunciare a ciò che la cultura umanistica ci aveva fatto comprendere riguardo all’Homo sapiens. Ponendosi nella prospettiva di una approfondita ed equilibrata analisi, egli afferma: «Personalmente cerco sempre di connettere le interpretazioni nate nel contesto delle scienze antropologiche, filosofiche, storiche, sociali con la ricerca neuroscientifica. Anche perché nelle humanities “tradizionalI” troviamo molto spesso intuizioni che adesso le scienze sperimentali confermano. Sicché nel mio studio ho utilizzato anche le teorie di Winnicott per spiegare il funzionamento delle superfici, riguardo al tema delle miniature ho fatto ricorso alle riflessioni di Walter Benjamin o Claude Lévi-Strauss, ho fatto riferimento alle scienze religiose per comprendere e interpretare la creazione degli ibridi». Scienza e umanesimo di fatto si intrecciano.
La conclusione è che l’uomo si è evoluto nelle conoscenze e nelle abilità, raggiungendo come sappiamo livelli sempre crescenti di scienza pratica, ma nel profondo le sue capacità cognitive, che si sono riflesse in straordinarie opere creative ieri come oggi, sono rimaste sostanzialmente immutate e acquistano senso all’interno della natura umana, al di là di ogni contingente significato. Una prospettiva forse disorientante per un verso ma certamente confortante per l’altro: che ci invita a rileggere la storia dell’uomo e a concepire un mondo in cui il segno di unità possa realmente prevalere sui comuni principi delle differenze e delle diversità.