Corriere della Sera, 26 febbraio 2025
I cento anni di Fendi raccontati da una Fendi
Cent’anni di Fendi…tudine. Nonna Adele cosa avrebbe detto? «Sarebbe stata orgogliosa. E anche nonno Edoardo. Lui volle quel nome, corto e internazionale. Ha avuto ragione», risponde Silvia Venturini Fendi che questa sera porterà in passerella la sfilata dei 100 anni della maison romana.
Nome premonitore: 5 lettere come le dita di una mano e come le 5 sorelle che dopo Adele hanno continuato: da sua mamma Anna a Franca e Paola e Alda e Carla.
«È una grande emozione, sono contenta. In questi mesi mi sono passati davanti tanti flash back. Un avanti e indietro che ho voluto poi tradurre in passerella. Mi sono ascoltata, tra passato e futuro. Io non ho bisogno di andare in archivio: immagini, sensazioni, emozioni sono dentro di me. Il set dello show, per esempio, è l’atelier di via Bergognone, dove sono cresciuta e dove tutto mi pareva gigantesco perché io ero piccina».
Il primo flash back?
«Era il 1966 e avevo sei anni e decisero di farmi sfilare: in quel momento io mi sono sentita parte finalmente di tutto quello che mi girava attorno. Ho sentito quella adrenalina che non mi ha più abbandonata».
Si riferisce alla foto del libretto-album che è l’invito allo show? Lei vestita con un pellicciotto fra due modelli?
«Ero felice, con quei vestiti mi sentivo dentro un sogno che era la mia realtà. Per tutto l’anno sono andata poi a scuola con quel giubbetto. Sfilai con Danka, una top che per me era un mito. Era il primo show di Karl (Lagerfeld, ndr) e mi volle lì perché decise di rappresentare la famiglia e quella incredibile storia di donne. Lui capì subito che adoravo la moda, non era mai infastidito quando gli gironzolavo attorno. Era lusingato. Mi lasciava libera di entrare e uscire e chiedere e restare accanto a lui ad imparare».
Una famiglia, e non un brand.
«È sempre stato così. Tutto veniva vissuto in azienda, anche la maternità. È stato così per mia madre e per me. Quando avevo le doglie per Leonetta, sono andata in clinica direttamente dall’atelier e ho continuato a lavorare. Non so per quale strana coincidenza i miei figli sono nati tutti sotto collezioni, fra settembre e ottobre. Io la vivevo come una magia. Realtà e sogno si mischiavano. Mia madre e le sue sorelle in quell’atelier lavoravano e vivano e quando le porte si chiudevano alle clienti arrivano personaggi incredibili: Fellini, Tosi e tanti artisti e amici. Ero affascinata e curiosa di tutto. Ero spettatrice ma anche da quella prima sfilata una delle protagoniste. C’è sempre stata molta inclusività in Fendi».
Mai sentito il peso di una storia così importante?
«Questo lavoro non ti permette di pensare. E vivo la responsabilità come un dono. Poi ho ereditato anche una fortissima disciplina e considero la creatività stessa una disciplina. Le sfide mi piacciono e così anche le cose difficili. Mi piace essere leader di un team e mi piace lavorare con gli altri. Da mia mamma e dalle zie ho imparato ad ascoltare e decidere. Ho ricordi incredibili delle ore che loro passavano a discutere. Poi decidevano all’unanimità… ma anche a votazione, sì. Erano tutte diverse, ma si rispettavano e si ascoltavano. Non c’era giorno né notte, specie dopo l’arrivbo di Karl».
La più grande soddisfazione?
«Essere ancora qui».
La più grande delusione?
«Nessuna. Questo lavoro mi dà tantissimo e lo affronto con lo stesso entusiasmo ogni giorno perché per me ogni giorno è come il primo. Non do mai niente per scontato, non mi sento mai arrivata: questa è la mia ricetta segreta, condita dal fatto che sono molto esigente con me stessa. Lo stesso impegno che vedo in Delfina e Leonetta che ora lavoravo con me ed è una gioia immensa, è un confronto in cui rivedo un po’ quelle dinamiche fra me e mia madre. C’è schiettezza con loro e le ascolto e loro ascoltano me».
Quando Lagerfeld morì, lei prese in mano la direzione creativa anche delle collezioni donna e la sua sfilata le valse una standing ovation. Però poi fu nominato Kim Jones che, diciamolo, non ha aggiunto nulla al valore creativo del brand. Anzi. E ora c’è un toto-candidati per il prossimo nome. Perché non il suo?
«Preferisco rispondere con i fatti».
Ma lei i fatti…li ha fatti. Non è troppo altruista?
«Non so. Cambiamo argomento».
La famiglia si è mai pentita di aver venduto al gruppo Lvmh?
«Assolutamente no. È stata la cosa più giusta da fare. Lo abbiamo voluto, deciso e scelto. Così abbiamo potuto occuparci solo della creatività e dell’artigianalità e di tramandare le nostre tecniche di lavorazione. Con questo anniversario vogliamo aprire le porte del nostro meraviglioso mondo che è tradizione e cultura. C’è lo show, la festa ma poi una serie infinita di eventi e iniziative. È un cento che è infinito».
A lei anche il merito di aver portato Fendi oltre la pellicceria.
«Veramente mia nonna quando fu approvata la convenzione di Washington le ’75 sfilo il primo tessuto che sostituì la pelliccia. Una forma di rispetto che riconosco nella nostra educazione dove però non è contemplata la rigidità. E comunque Fendi nacque come brand di borse, le pellicce vennero dopo ed erano stole».
Un regalo che vorrebbe per questo compleanno?
«Nessuno, sono felice così. Anzi no, uno ce l’ho: vorrei almeno una standing ovation. Perché ho lavorato tanto per questo show e sono così soddisfatta».
Un libro? Un film?
«Il primo quando andrò in pensione. Il secondo magari, mi piacerebbe tanto».