Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  febbraio 21 Venerdì calendario

Un film su Nicola Calipari

«Nicola Calipari era un uomo con un profondo senso della giustizia e un grande rispetto per la sacralità della vita umana». A definire così l’agente dei servizi segreti, ucciso a Baghdad il 4 marzo 2005, mentre portava in salvo la giornalista del manifesto Giuliana Sgrena, rapita il 4 febbraio nella capitale irachena da terroristi jihadisti, è Claudio Santamaria, che lo interpreta nel film Il Nibbio.

Diretto da Alessandro Tonda, in uscita il 6 marzo, prende il titolo dal nome in codice usato da Calipari al Sismi. Racconta la vicenda di cronaca, a partire dal rapimento e dal coinvolgimento dell’agente segreto, la complicata trattativa per la liberazione, fino al tragico epilogo in cui una pattuglia di soldati americani fece fuoco contro l’auto in cui si trovavano Giuliana Sgrena (la interpreta Sonia Bergamasco) e il suo salvatore.

Il film, unico progetto approvato negli anni dalla vedova Rosa Villecco Calipari (nel film è l’attrice Anna Ferzetti), descrive le indagini, fatte anche di discussioni del Nibbio col capo dei servizi Pollari (Antonio Zavatteri) e il collega interventista Carbonaro (Jerry Mastrodomenico), il rapporto col direttore del manifesto Gabriele Polo (Sergio Romano) e la trattativa con un misterioso uomo d’affari iracheno (Hossein Taheri). «Caduto il regime di Saddam Hussein (a seguito dell’invasione americana dell’Iraq del 2003, ndr) si è creata una grande instabilità», dice Santamaria, «e i sunniti, esclusi dalla guida del Paese, hanno iniziato a fare attentati e rapimenti, come quello di Giuliana Sgrena, ma anche di Simona Torretta e Simona Pari, che erano state salvate proprio da Calipari».

"Il nibbio" il film su Nicola Calipari con Claudio Santamaria

Nel film si racconta anche la vita privata di Calipari…
«Per tratteggiarlo è stato fondamentale parlarne con sua moglie Rosa: era ironico, molto dolce in famiglia e aveva un aplomb invidiabile».

Come ci si cala nei panni di un agente dei servizi?
«Ci ha aiutato l’Aise (che ha sostituito il Sismi, ndr), soprattutto a rendere credibili certi dialoghi e certe procedure. Mi hanno consigliato di guardarmi Le Bureau – Sotto copertura. Mi hanno detto: accade tutto esattamente come in quella serie tv».

Ha incontrato Giuliana Sgrena?
«È venuta sul set, appare nella scena della manifestazione per la sua liberazione. L’ho incontrata, ma ha parlato più con Sonia Bergamasco che la interpreta. Nel prepararmi ho letto anche il libro di Gabriele Polo sulla vicenda: Il mese più lungo».

Ha parlato con i colleghi di Calipari?
«Sì, mi hanno raccontato che Nicola dove arrivava faceva pulizia, eliminava ogni fonte di corruzione e inseguiva sempre giustizia e verità. La sua passione superava lo spirito di servizio. Faceva di tutto per liberare gli ostaggi. Il suo rammarico era non essere riuscito a salvare Enzo Baldoni».

Quali erano le sue qualità professionali?
«Era un mediatore, non si limitava a pagare riscatti, ma stabiliva un rapporto vero con i rapitori. Aveva capito ad esempio che stringere legami con il Consiglio degli Ulema sunniti poteva essere utile. E che poteva liberare gli ostaggi senza usare la forza, come invece volevano altri. In questo senso aveva creato nei servizi una vera e propria corrente calipariana».

Parolisi, ex collega di Calipari, ha detto alla Sgrena che lui fu avvertito del fatto che gli americani avrebbero potuto sparargli, perché c’erano stati episodi simili. Gli fu sconsigliato di salire in quell’auto, ma lui ci volle andare lo stesso.
«Questo aspetto, sono sincero, non lo conoscevo».

Che idea si è fatto però della sua uccisione, attribuita al soldato Mario Lozano?
«Difficile dire come siano andate le cose: ci sono state due inchieste (una italiana, l’altra americana, ndr), arrivate a conclusioni contrastanti. Una cosa però è certa».

Quale?
«Gli Usa non hanno permesso all’Italia (che ha rinunciato per carenza di giurisdizione, ndr) di indagare. Gli americani ci hanno liberato dal fascismo, sono nostri amici, ma noi siamo alleati di serie B, non siamo alla pari».

In quei giorni a Baghdad c’erano continui attentati e scontri a fuoco, si poteva morire in ogni momento. Come si è calato in questa atmosfera di guerra?
«È stato fatto un lavoro encomiabile sulla scenografia. Abbiamo girato in Marocco, dove è stata ricreata Baghdad. Poi abbiamo cercato di creare quello stato di tensione emotiva in cui Calipari doveva lavorare. Mi sono ricordato che quando ho girato Torneranno i prati, ambientato nelle trincee della Grande guerra, Ermanno Olmi ci diceva: “Guardatevi con la gioia di chi si sente vivo e il terrore di chi sa che potrebbe morire tra un minuto”».

Che vita fanno questi agenti segreti spesso rappresentati al cinema in modo certo più fantasioso?
«Un lavoro difficile, che spesso li porta lontano dalla famiglia, a cui peraltro non possono dire nulla. Non è facile tenere le due vite separate tra loro. Anche se Calipari era entrato da poco nei servizi, dopo essere stato a lungo in Polizia».

Calipari era appunto un poliziotto e lei ne ha interpretati diversi, ad esempio nel film Diaz – Non pulire questo sangue. E sui poliziotti spesso destra e sinistra si sono scontrate. Lei che ne pensa?
«Che anche loro sono esseri umani: a volte sono integerrimi, a volte corrotti. Calipari era uno che sapeva ascoltare le persone: quando era in polizia aveva istituito un numero per le violenze sugli omosessuali, e all’ufficio immigrazione un sistema per dare un appuntamento agli immigrati, prima bistrattati. Questo suo sguardo dovrebbe essere d’esempio per i politici, che spesso si scontrano come allo stadio: ma schierarsi in modo aggressivo non porta da nessuna parte».

Nel Nibbio sfoggia un ottimo inglese, e oltre a Itaca. Il ritorno con Ralph Fiennes ora al cinema, sarà nel film In the Hand of Dante di Julian Schnabel. Che effetto le fa?
«Sono felice di essere notato anche all’estero. Con Schnabel ci siamo incontrati per caso all’hotel Parco dei Principi a Roma, a colazione. Abbiamo chiacchierato e mi ha offerto un ruolo in questo film tratto dal romanzo di Nick Tosches che reinventa il viaggio di Dante all’Inferno».

Al cinema è anche in Follemente di Paolo Genovese.
«Interpreto Eros, l’emozione umana più passionale, per cui conta solo una cosa: portarsi a letto le ragazze. E poi uscirà anche Idolos, un film dove ho recitato in spagnolo e sono un ex campione di MotoGP che aveva lasciato il circuito dopo la morte di un amico e torna per allenare il figlio».

Vent’anni fa usciva Romanzo criminale. Che ricordo ne conserva?
«Ha rappresentato una svolta: insieme a L’ultimo bacio ha fatto capire al pubblico che poteva apprezzare anche film e attori italiani. All’epoca non lo capii, devo ringraziare Michele Placido. Un’altra svolta è stata Lo chiamavano Jeeg Robot: ha dimostrato che si possono raccontare storie drammatiche attraverso i generi».

Ci sarà mai l’attesissimo sequel?
«Imploro il regista Gabriele Mainetti da dieci anni. Dice che perché accada ci vuole un cattivo all’altezza dello Zingaro».

Lei è romano e vive a Milano, dove sarà direttore artistico del Milano Film Fest, a giugno.
«Faremo un evento che non si limiterà al cinema, ma spazierà a serie tv, eventi musicali e altro. Si svolgerà al Piccolo Teatro e coinvolgerà tutta la città. Milano, dove mi trovo benissimo, avrà finalmente un festival dal respiro internazionale».