Avvenire, 25 febbraio 2025
Il libro nero dell’impero britannico
Alcuni anni fa, in un corposo saggio intitolato Imperial Reckoning che le valse il premio Pulitzer, la storica statunitense di Harvard Caroline Elkins riuscì a infrangere il “codice del silenzio” che aveva impedito, fino ad allora, di far luce su una delle vicende più sanguinose nella storia recente dell’Impero britannico: la feroce repressione dei Mau Mau in Kenya, ovvero l’eccidio, l’internamento e la tortura di migliaia di guerriglieri keniani insorti in una delle tante guerriglie di liberazione dal colonialismo europeo alla metà del XX secolo. Con quello studio, Elkins aveva spaccato in due il mondo accademico britannico: mentre alcuni la lodarono per il coraggio, altri misero addirittura in dubbio l’attendibilità di molte delle testimonianze orali citate nel libro. Ma di lì a poco il suo saggio divenne il principale elemento probatorio sul quale ruotava la richiesta di risarcimento milionaria presentata al governo britannico da un gruppo di reduci. Durante il lungo processo – che avrebbe infine costretto Londra ad accettare un patteggiamento da milioni di sterline – venne rivelata l’esistenza di un gigantesco archivio segreto a Hanslope Park, in un magazzino-fortezza immerso nel cuore della campagna inglese. Al suo interno furono rinvenuti migliaia di dossier secretati che costituivano le prove dei crimini commessi dallo stato britannico in alcune delle ex colonie dell’impero. «Quel materiale d’archivio – spiega Elkins – dimostrava in modo inequivocabile che i ministri e gli alti funzionari pubblici di Londra erano pienamente consapevoli degli omicidi e degli abusi che venivano perpetrati con sistematicità sui prigionieri internati nei campi di detenzione britannici». Proprio quei documenti inediti avrebbero consentito alla studiosa di ampliare il campo della sua indagine fino a confluire nel suo ultimo lavoro Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico (traduzione di Luigi Giacone; Einaudi, pagine 990, euro 48,00), un monumentale “libro nero” che abbatte, un pezzo dopo l’altro, la narrazione auto-celebrativa del British Empire, rivelando il cuore di tenebra di un potere che ancora oggi non vuole essere messo in discussione.
Dopo aver incrociato le sue ricerche in una ventina di altri archivi, la storica di Harvard ha messo in fila le prove dei crimini commessi da un impero che appena un secolo fa si estendeva ancora su circa un quarto del territorio del pianeta. Il suo ponderoso studio si concentra in particolare su alcune esperienze coloniali esemplari – come Kenya, Cipro, Malesia, Aden, Palestina e Irlanda del Nord – e spiega perché l’impero esercitò una violenza di Stato eccezionale e come i suoi sistemi furono concepiti, messi in atto e assolti sia nelle colonie che in Gran Bretagna. Lasciando cicatrici permanenti sui corpi e sulle menti dei sudditi. «Anche in epoca contemporanea – prosegue Elkins – sono stati commessi crimini eclatanti come l’imprigionamento dei bambini boeri nei campi di concentramento nel 1900, i massacri in India come quello di Amritsar del 1919 e stragi nelle città irlandesi in quegli stessi anni. Purtroppo non si trattò di episodi isolati, bensì di un sistema istituzionalizzato e diffuso mirante a intimidire intere popolazioni, avallato dalle massime autorità dello Stato, che il potere politico cercò in tutti i modi di occultare all’opinione pubblica». Docente di studi afroamericani nella prestigiosa università statunitense, Elkins punta il dito contro quello che lei stessa definisce “imperialismo liberale” – ovvero una combinazione di paternalismo, razzismo e uso intensivo della violenza – confutando l’espressione coniata da Rudyard Kipling in una sua famosa poesia, “Il fardello dell’uomo bianco”, secondo la quale i colonizzatori avevano il “dovere morale” di civilizzare le popolazione arretrate. La ricerca prende avvio dal procedimento giudiziario a carico di Warren Hastings, famigerato governatore del Bengala alla fine del XIX secolo, e copre gli ultimi due secoli di storia dell’impero fino alla sua dissoluzione, dopo la Seconda guerra mondiale. Con una domanda cruciale cui la studiosa cerca di dare risposte: in che modo la Gran Bretagna poté giustificare e mantenere il controllo totale dei popoli sottomessi in un’epoca storica in cui gli ideali liberali stavano rendendo il suo stesso stato-nazione sempre più democratico? La violenza istituzionalizzata – sostiene Elkins – fu indispensabile per consentire alla Gran Bretagna di mantenere le sue rivendicazioni sulle colonie e si basò innanzitutto su una presunzione di superiorità, attraverso gerarchie razziali che paragonavano i sudditi a bambini bisognosi di una guida paternalistica. «Numerosi esperti legali, antropologi e accademici di varia natura si resero sostanzialmente complici del progetto coloniale alimentando teorie secondo le quali gli indigeni erano selvaggi privi di morale, nei cui confronti l’uso della forza era lecito oltre che necessario». È esemplare quanto accadde in India nell’aprile 1919, subito dopo l’introduzione della legge marziale da parte del potere coloniale britannico. Il generale inglese Reginald Dyer, senza alcun preavviso, ordinò alle sue truppe di aprire il fuoco su una folla di manifestanti indifesi durante un comizio, facendo massacrare circa quattrocento persone. Dyer sarebbe passato alla storia come il “macellaio di Amritsar” e quando venne chiamato a spiegare il suo operato spiegò che il suo intento non era solo quello di disperdere la folla ma «di creare dal punto di vista militare un effetto morale adeguato in tutto lo stato del Punjab». Nel libro ricorrono poi alcune figure storiche, alcune molto note altre meno, citate attraverso aneddoti e immagini assai edificanti. Una è quella di un giovane Winston Churchill, che decanta le lodi delle armi chimiche e dei famigerati proiettili “dumdum” a frammentazione, vietati dalle convenzioni internazionali ma comunemente utilizzati nel corso delle guerre coloniali. Un altro è Douglas Duff, ufficiale a capo della milizia dei Black&Tans, inviata in Irlanda agli albori del XX secolo per schiacciare con ogni mezzo lecito e illecito il movimento indipendentista indigeno. In seguito – quando venne inviato in Palestina – usò contro i nazionalisti arabi le stesse tattiche violente che aveva sperimentato contro gli irlandesi. Un altro ancora è Arthur Harris, controverso pilota della Royal Air Force che per contrastare le insurrezioni antibritanniche non esitò a promuovere campagne di bombardamenti a tappeto contro i civili in Iraq, in Afghanistan, in India e in Palestina. «Eppure, sebbene la ricerca storica abbia ormai rivelato il vero volto dell’impero britannico, in un sondaggio condotto nel 2014 circa il sessanta percento della popolazione della Gran Bretagna credeva ancora che l’impero fosse qualcosa di cui andare fieri», conclude Elkins. Più recentemente, oltre un quarto dei britannici ha affermato addirittura di rivolerlo.