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 2025  febbraio 25 Martedì calendario

La storia della Russia

«Con la mente non si può capire la Russia, non la si può misurare col metro comune: in essa c’è un’essenza particolare. Nella Russia si può soltanto credere». Lo scrisse nell’Ottocento il poeta Fëdor Ivanovich Tjutchev e vale ancora oggi. L’immenso Paese, il più esteso della Terra, ha l’anima divisa in due, tra la vocazione europea e il radicamento asiatico in continua oscillazione, preda da sempre delle sue contraddizioni, tra il desiderio di raffinatezza e la sanguigna barbarie slava. La forza, dai tempi di Ivan il Terribile, l’ha posseduta e l’ha esercitata senza temperamenti. Ogni novità è stata calata dall’alto, con il processo verticale del cambiamento imposto nella dimensione orizzontale dell’accettazione del presente. Pietro il Grande, che era tale non solo di statura ma anche di idee, comprese che il vento della storia arrivava da Ovest e sradicò ogni resistenza alla modernizzazione.
Lo Zar autocrate segnò la via dell’Europa come principale scenario d’azione di tutte le Russie, non necessariamente l’espansione territoriale, che pure avverrà per le spallate alle porte che la storia schiudeva, e le donò nel 1703 la città-gioiello di Pietroburgo sul Baltico, che diventerà lago russo. La Polonia una volta temutissima (che aveva avuto l’ardire di occupare Mosca nel 1610) venne inglobata nel XVIII secolo con gli accordi spartitori con Austria e Prussia. Con Napoleone l’impero zarista si scontrò, cercò l’accordo e poi lo sconfisse creando il mito del 1812 e avviando il crollo della grandeur francese. Poi cercò di raggiungere un altro mito, lo sbocco nelle acque calde del Mediterraneo, ma le Potenze europee lo impedirono militarmente. Ripiegò con una diplomazia sottile che dava lievito alle spinte nazionalistiche nei Balcani e a una fratellanza slava di cui Santa Madre Russia si ergeva a protettrice, mentre nello stesso tempo nella sua fetta di Polonia procedeva alla brutale snazionalizzazione.
EUROPEIZZATI
Nella corte dei Romanov si parlava francese e la politica internazionale guardava a oriente, dove le possibilità erano più ampie dello scacchiere occidentale: caduto con Bismarck il trattato di contrassicurazione con la Germania (1887-1890), all’alba del Novecento la Russia per non rimanere isolata nel concerto di potenze si tutelò frettolosamente alleandosi con la Francia grazie alla Duplice intesa (1891-94) e subito dopo entrava in rotta di collisione col Giappone, appena uscito a tappe forzate dal Medioevo. L’esercito e la marina di Nicola II vennero fatti a pezzi tra il 1904 e il 1905 a Port Arthur e Tsushima, prime vittorie in assoluto di una nazione orientale su una potenza occidentale. Già percorso da fermenti rivoluzionari, sotto il profilo del diritto internazionale e dei suoi equilibri l’impero zarista venne graziato nella sconfitta dalle ingerenze delle grandi potenze dell’epoca che depotenziarono il clamoroso successo militare giapponese col trattato di pace di Portsmouth del 1905. Ma la Russia restò a covare vendetta e se la prenderà dopo quaranta anni.
In seguito il temuto “rullo compressore” russo che terrorizzava gli strateghi europei veniva sbriciolato dai marescialli prussiani durante il primo conflitto mondiale, in cui la Russia si era gettata a corpo morto per tutelare la “sorella” Serbia dall’aggressione austriaca dopo l’attentato di Sarajevo. Gli uomini non sono mai mancati nelle guerre della Russia, la materia prima di cui ha fatto l’uso più spregiudicato in ogni epoca, ma lo Zar esagerò e la sua classe dirigente corrotta e incapace fece il resto. Nel 1917 Lenin promise pace e giustizia sociale, e con la seconda rivoluzione di quell’anno spazzò via il vecchio mondo ricementandolo col sangue a partire da quello dei Romanov che fece giustiziare. Con la pace di Brest-Litovsk imposta dai tedeschi a marzo 1918 la Russia dovette rinunciare a un territorio vasto quanto Austria-Ungheria e Turchia messe insieme, 56 milioni di abitanti, un terzo della rete ferroviaria, quasi l’80% della sua produzione di ferro e quasi il 90% del carbone. La Finlandia se n’era andata per prima nel 1917 e così se ne andranno Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania nel 1918. Con la guerra civile Ucraina e Bielorussia rientreranno a forza nei confini. La sconfitta con la Polonia, portata a un passo dall’annientamento e dell’esportazione della rivoluzione bolscevica in Europa, e la successiva pace di Riga del 1921, furono considerati dai bolscevichi un male necessario, ma anche su questo il Cremlino meditò vendetta. Spezzato nel 1924 il cordone sanitario e diplomatico che doveva isolare l’Urss nata nel 1922,
Mosca si mosse da un lato attingendo alla tecnologia tedesca che riceveva gratis da Berlino perché le permetteva di aggirare i divieti imposti dal Trattato di Versailles in materia di armi e armamenti sviluppandoli sul suo territorio, dall’altro con Stalin radicalizzando gli aspetti ideologici del sistema comunista e della sua personale dittatura con spietatezza: lo sterminio per fame in Ucraina (Holodomor), le grandi purghe con fucilazioni, deportazioni di massa nei gulag con uso schiavistico della forza-lavoro, repressione spietata del dissenso, il terrore declinato in ogni forma. Tutto in attesa di ripristinare il vecchio impero zarista ma col nuovo ordine sovietico, in quei confini e anche oltre.
VERSO IL CONFLITTO
Ed ecco i Patti di non aggressione con Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania del 1932 che saranno stracciati nel 1939, e quello con la Germania nazista del 23 agosto 1939 che, attraverso i protocolli segreti, prevedeva la spartizione di una larga fetta dell’Europa, spingendo il resto verso la guerra mondiale. E subito il castigo all’ex Granducato di Finlandia rimasto indipendente, attaccato il 30 settembre 1939. Nel 1945 Stalin, con la leva propagandistica della Grande guerra patriottica, vendicherà a occidente il Trattato di Riga prendendosi i Paesi occupati dall’Armata Rossa e a Oriente quello di Portsmouth entrando in guerra contro il Giappone dopo l’atomica americana, raccogliendo un ricco bottino quasi senza colpo ferire. Quello che non era stato stabilito a Jalta verrà sancito dallo stato di fatto venutosi a creare con l’avanzata dell’esercito sovietico verso Berlino, Vienna, Praga, Budapest, e pure Varsavia rasa al suolo dai tedeschi per punirla della rivolta del 1944. Sarà mezza Europa a pagare il prezzo più alto, sotto tallone ideologico imposto con la decapitazione delle classi dirigenti, l’epurazione violenta dei residui elementi democratici e anche con le sostituzioni etniche come nei Paesi baltici. Un’oppressione pervasiva, con controllo diretto e con l’imposizione della lingua russa su qualunque idioma straniero. Il Patto di Varsavia, di mutua assistenza militare a guida sovietica, e il Comecom con le regole di commercio interno le cui condizioni erano dettate da Mosca a proprio vantaggio, contribuirono a stringere la morsa lì dove non bastavano il regime di polizia e il monopartito che si spacciava per democratico e popolare anche per denominazione. Nell’equilibrio dettato dalla paura atomica, dal mondo spaccato in due e dal terzo mondo come vetrino d’incubazione per esprimenti socio-economici e di applicazione sul campo delle dottrine militari, si arrivò al 1989, passando da Poznan e Budapest 1956, Praga 1968, Solidarnosc.
ILLUSIONI
Poi il crollo del Muro di Berlino e il collasso della struttura sovietica, con Mihail Gorbacëv travolto dall’inanità di perestrojka e glasnost, il rantolo della Comunità degli Stati indipendenti, la disgregazione sulle spinte nazionale, e l’apparizione sulla scena di Vladimir Putin dopo l’interregno dell’alcolizzato e velleitario Boris Eltsin. Il gelido ex ufficiale del Kgb, un pezzetto alla volta, ha riportato la Russia in primo piano sul palcoscenico internazionale, utilizzando la spregiudicatezza degli zar e il cinismo di Stalin: l’uso della forza, la negazione dei diritti, il soffocamento violento dell’opposizione e il disprezzo per la vita umana in pace e in guerra. Il Trattato di unione del 1997 ha creato una strana creatura formalmente unica con la Bielorussia del presidente-dittatore perenne Aljaksandr Lukashenko. La Georgia che già fu del presidente e già ultimo ministro degli esteri dell’Urss Eduard Shevardnadze venne ricondotta alla ragione il 7 agosto 2008 con l’invasione dell’esercito russo per sostenere i separatisti in Abkhazia e Ossezia del Sud e frenare le aspirazioni di Tbilisi verso l’Europa e la Nato. È stata quella la prima guerra europea del Ventesimo secolo, con la Russia protagonista. Nel 2020 Putin farà cadere nel nulla una lettera inviata personalmente dal primo ministro dell’Armenia che ne sollecitava l’aiuto, in base a una serie di rapporti bilaterali di sicurezza, per l’attacco dell’Azerbaijan nella questione dell’enclave del Nagorno-Karabakh già al centro di una guerra tra Erevan e Baku tra 1992 e 1994. Mosca fin allora in qualche modo si ergeva a grande arbitro per stendere la sua influenza, ma nel mirino del Cremlino era entrata già l’Ucraina.
UCRAINA
L’imperatrice Caterina II se l’era presa nel 1784 dall’Impero ottomano, il segretario generale del Pcus Nikita Krushëv l’aveva ceduta con decreto alla sua Ucraina nel 1954 (d’altronde la popolazione era ucraina per oltre il 70% e tutto rimaneva dentro l’Urss) poco dopo la morte di Stalin, il nuovo zar del Cremlino Putin la riportava in Russia nel 2014 con annessione unilaterale sancita da un referendum: uno dei tanti che secondo il modello sovietico dava puntualmente una schiacciante ragione a chi l’indiceva e ne controllava lo svolgimento. Era il primo atto della “questione ucraina” risolta con il consueto ricorso alla forza delle armi attraverso l’invasione militare del 24 febbraio 2022. La parola diplomatica passava al ministro degli Esteri Sergei Lavrov, più impegnato a creare attriti che a smussare gli angoli, e alle dichiarazioni al vetriolo della sua portavoce Marija Zacharova. Al centro della ragnatela che ha invischiato il mondo c’è sempre lui, Putin, che ha rivalutato Stalin, ha manipolato la storia riscrivendola a proprio uso e consumo, ha ricreato miti e menzogne d’epoca sovietica amplificandoli. No, non era gravemente malato come si diceva, non è morto come si sperava, non ha perso come non poteva se non nei sogni, non si è arreso alle inutili sanzioni che dovevano schiantare l’economia russa, e ha tirato dritto incurante delle perdite in vite umane come sempre nella storia del suo Paese. Aveva ragione Tjutchev quando sosteneva che la Russia non si può misurare col metro comune.