Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  febbraio 25 Martedì calendario

Il capo dell’Esercito Masiello e i droni per l’Italia


Il generale di corpo d’armata Carmine Masiello guida l’esercito italiano da 12 mesi. Troppo presto per fare bilanci, dice. «Ora potrebbe essere fuorviante. Le somme andranno fatte al termine dei miei tre anni di comando». L’esplodere di due guerre alle porte di casa, però, sta facendo cambiare pelle al nostro esercito. «Che ha assoluto bisogno di cambiare per affrontare le nuove sfide, lungo i tre assi di tecnologia, addestramento e valori. Dobbiamo vincere la sindrome della caserma. Ma inizio a vedere i primi risultati».Generale, come si cambia?«La mia priorità, direi quasi ossessione, è il coinvolgimento dei giovani, i militari tra i trenta e i quarant’anni. Noi siamo qui per costruire il “loro” esercito. Solo loro comprendono come sta cambiando il mondo. Ho sviluppato delle iniziative c’è una casella mail qui nel mio ufficio dove possono scrivere tutti, ufficiali, sottufficiali e graduati. Mi piace dire che le idee non hanno gradi. E devo dire che dopo un primo sbandamento, misto a incredulità, le proposte arrivano. A centinaia per fortuna. Mi sembra che il processo di coinvolgimento sia partito».D’altra parte a voi servono gli occhi dei nativi digitali, no?«Certo. Vogliamo chiedere a un “boomer”, figlio degli Anni Sessanta, di decidere senza avere le competenze di un nativo digitale? Il mondo è cambiato. Faccio un esempio per farmi comprendere ancora meglio: qualsiasi cosa succeda, in qualsiasi settore della vita civile, che sia nella tecnologia o nella medicina, ha un impatto sul modo di condurre la guerra. Perché la guerra ormai è ibrida. Perciò dobbiamo essere attenti a ogni aspetto della vita civile».Lei esordì con una frase ad effetto: l’esercito o è tecnologico, o non è. State recuperando?«Sì, per troppo tempo si è pensato che l’esercito fosse zaini e scarponi. Siamo stati sottofinanziati per anni. Invece no. L’esercito deve essere tecnologico e recuperare il gap rispetto alle altre forze armate. Vale per noi, ma sa, vale per tutti gli eserciti terrestri. La guerra in Ucraina è stato un brusco risveglio per tutti».E c’è la terribile lezione dei campi di battaglia.«Abbiamo gli occhi puntati sull’Ucraina, forse perché è più vicina a noi, ma osserviamo anche il Medio Oriente. La prima è una guerra con aspetti convenzionali che avevamo dimenticato. Mai avremmo pensato di tornare alle trincee, noi che ci eravamo formati alle missioni di mantenimento della pace e costruivamo barricate. E invece abbiamo dovuto rivedere tutto. Ci sono aspetti antichi del modo di combattere. Poi ci sono aspetti più moderni, ma che avevamo abbandonato, come l’uso di mezzi corazzati e artiglierie. E poi ci sono le nuove componenti: la guerra cibernetica, quella spaziale, quella cognitiva. Stiamo osservando come combattono e vediamo il mix di tutte queste componenti. Ma questo vale per l’oggi, non per quello che sarà tra vent’anni».Intende dire le tecnologie che verranno?«Ci interroghiamo, ad esempio, sull’impatto dell’intelligenza artificiale. Io personalmente non so rispondere. Mi confronto spesso con i miei omologhi e nessuno ha una risposta definitiva. Abbiamo chiaro, però, che una cosa è applicare l’intelligenza artificiale ai mezzi esistenti, altro è quel che sarà generato dall’intelligenza artificiale stessa. Come si combatterà in quello scenario? Come risolveremo il problema di asimmetria di valori tra noi, che vogliamo lasciare l’uomo al centro delle decisioni, e altri che non se ne preoccupano? Questo ci pone in una situazione di svantaggio. E allora, che fare? Rinunciare ai nostri valori o pensare a come superare questo gap? Da comandante mi pongo l’obiettivo di come colmare questo svantaggio senza rinunciare al nostro sistema di valori. C’è una riflessione in corso allo stato maggiore».Che dice dei droni?«Ormai sono entrati nello scenario bellico e stanno cambiando il modo di combattere. In Afghanistan, avevamo il terrore di camminare perché il pericolo erano gli ordigni improvvisati. In Ucraina, dove i droni sono utilizzati a centinaia di migliaia se non a milioni, i soldati russi e ucraini hanno il terrore di ciò che arriva dal cielo. Anche il nostro personale deve imparare che il drone fa parte del suo bagaglio. Ogni plotone deve avere i suoi. C’è stato un cambio di paradigma e in un anno abbiamo avviato approvvigionamenti significativi. Le prime due brigate dell’esercito li riceveranno a breve».Né ci sono soltanto i droni volanti.«Stiamo studiando il drone che vola, quello terrestre che cammina, e quello utile per il combattimento nel sottosuolo. Anche questo combattimento non lo avevamo messo in conto, non ci eravamo mai avventurati, ma stiamo recuperando. È un dato di fatto che i centri abitati sono diventati essenziali per il combattimento e allora non possiamo non pensare anche alla guerra sotterranea. Perciò dobbiamo studiare tutti gli aspetti di queste macchine guidate a distanza. Saranno uno degli assetti dell’esercito del futuro. Prioritario, infine, è il progetto della cosiddetta “bolla tattica": la parte cibernetica, il controllo elettromagnetico e capacità satellitare si fondono per creare un ambiente sicuro e che non sia penetrabile dall’avversario. Con la “bolla” siamo molto avanti. Abbiamo fatto delle esercitazioni che sono studiate, e direi anche invidiate, da altri Paesi».Lei ha fatto riferimento anche alla guerra cognitiva. Che cosa intende?«È qualcos’altro a cui non eravamo pronti, questa evoluzione della guerra psicologica, ma è un aspetto delle operazioni a cui dobbiamo fare particolare attenzione. Ormai i social fanno parte della nostra vita, giorno e notte, e vengono utilizzate per influenzare le coscienze. La mente è un campo di battaglia. Anche su questo abbiamo avviato un percorso di formazione per i nostri, per essere pronti a contrastare questo fenomeno. Una sorta di alfabetizzazione mediatica». —