Corriere della Sera, 25 febbraio 2025
Le memorie di Bruno Longhi, re dei telecronisti
L’immagine di WhatsApp lo ritrae in giacca e camicia accanto a Pelè: «Erano i Mondiali del 1994, si trovava nel mio stesso hotel. Amava l’Italia, mi raccontava spesso di quando sarebbe dovuto andare all’Inter prima che chiudessero le frontiere. E poi suonava la chitarra». Nella sua carriera da telecronista Bruno Longhi ha commentato una ventina di finali – fra cui l’ultimo trionfo in Champions della Juve (1996) e quello dell’Inter nel 2010 – otto Mondiali di calcio e altrettanti Europei. Ma quando parla di musica, lo sguardo si illumina: «È un qualcosa che hai nell’anima. Ho iniziato a suonare il basso non ancora diciassettenne. I Trappers, i 4 Satelliti, poi Flora Fauna & Cemento, tanti gruppi con cui mi pagavo gli studi».
E abitava a 300 metri da Lucio Battisti.«Con Mario Lavezzi e Sergio Poggi facevo parte della sua stessa casa discografica, la Numero 1. Avevamo un rapporto molto forte, per un anno abbiamo bevuto il caffè alla solita ora e al solito bar. Pagavo io, diciamo che Lucio era molto trattenuto nell’esposizione monetaria… Si incuriosiva alla mia vita. Una volta si chiuse con me in una stanza affinché gli raccontassi del militare che lui non aveva fatto».
Dicono non amasse essere disturbato.«Per parlarci al telefono gli amici più stretti dovevano digitare il numero tre volte. Al quarto trillo rispondeva, era un modo per evitare gli scocciatori. Nel 1970 partecipai a Canzonissima con “Azzurra”. Little Tony ci mise la voce, io la musica, Mogol il testo. C’era una parte che non mi convinceva: “Chiama Lucio”, mi disse quest’ultimo. Da una parte io con la chitarra, dall’altra lui che mi consigliava quali accordi inserire».
Mogol si è innamorato del pallone grazie a lei?«Alla Numero 1 parlavamo sempre di calcio. Lui si avvicinava ma poi si allontanava subito. Un giorno lo portai a San Siro a vedere Inter-Atalanta di Coppa Italia. Non sapeva le regole, gli spiegai tutto».
Da lì divenne il padre della Nazionale cantanti.«Aveva 36 anni e non aveva mai giocato prima. Iniziò a invitare amici a casa sua, a organizzare tornei. Battisti giocava in porta, si presentava con guanti e ginocchiere. Alla prima partita gli feci 4 gol: “A De Longhis – americanizzava tutto – se mi ci metto divento forte”. Ma smise, non era il suo sport».
Ma è vero che disse alla Nannini di cambiare mestiere?«Si era inserita nel nostro gruppo. Impazziva per Carole King, una cantautrice americana. Suonava bene, ma era squadrata. In poche parole, andava per i fatti suoi. Le dissi che forse non sarebbe stata quella la sua strada. Molti anni dopo ci siamo ritrovati in una radio privata e me lo ha rinfacciato bonariamente».
Lei di mestieri ne ha cambiati diversi: musicista, giornalista, telecronista. Prima ancora calciatore nell’Inter«Ci ho giocato per due anni, a 11 l’ “esordio” a San Siro. Facevo infuriare gli allenatori, ero la classica mezzapunta che cercava il tunnel, perdeva il pallone e non rincorreva l’avversario. Poi mi ammalai per un anno, tre bronchiti di fila. Ricominciai dalla Solbiatese, ma avevo cominciato a suonare in un locale. Non avevo la macchina, arrivavo a casa alle 3 di notte e la mattina dopo sveglia alle 7 per andare a giocare: “Di Pelè ce n’è stato uno solo, lasciamo perdere”, mi dissi».
È nato il 2 giugno del 1947, un anno dopo la Repubblica.«Ma a casa si parlava soprattutto di ciclismo, di cui mio padre era un fanatico. Zia Maria mi dava mille lire per votare DC, ma mi fingevo sordo: “Cosa? PCI? Ah ok, allora voto per i comunisti”, e lei si infuriava».
Come diventa giornalista?«Mio padre mi dà un ultimatum: “Basta con la musica”. Avevo dimestichezza con le lingue, inizio a lavorare in Borsa. Ma dovevo dire sempre le stesse cose, mi annoiavo. Quindi aggiungo una collaborazione serale con Nova Radio, dovevo occuparmi delle scalette musicali: “E di calcio non fate niente?”, chiesi. Mi inventai una trasmissione con i tifosi, coinvolgendo alcuni ex compagni dell’Inter, da Oriali a Bordon. Mi nota il capo redattore del Corriere d’Informazione. No, il mio futuro non era in Borsa».
Il primo incontro con Berlusconi?«Piero Dardanello, allora capo dello sport al Corriere d’Informazione, doveva realizzare per lui un’intervista a Liedholm in vista di Juve-Milan. Ebbe un imprevisto: “Puoi andare tu?”, mi chiese. Vado a Milanello, la faccio. Mi telefona un uomo di Berlusconi dal fortissimo accento milanese: “La vuole conoscere”. Non sapevo neanche chi fosse: “Ma come? Quello di Edilnord, Milano 2… un grande manager”. “Senta – risposi io – se mi chiede di Mazzola è un conto, ma questo Berlusconi non so proprio chi sia”».
Però le strappò un gran contratto.«Mi ero spostato su Telemontecarlo per commentare i Mondiali messicani. Quando nell’88 Mediaset mi richiamò, mia moglie mi disse: “Cosa vuoi, 100? Allora chiedilo e ti verrà dato. Non ti sei proposto tu, ti hanno voluto loro”. Fui subito accontentato. Ripensandoci avrei potuto chiedere anche 150…».
Le sue fisse?«Teneva molto alla forma. Una volta avevamo Stefano Chiodi in studio. C’era una ragazza di 18 anni che voleva fargli una domanda e io le diedi la parola: “Sentiamo la nostra amica”. Il giorno dopo Berlusconi mi chiamò: “Caro Bruno, qui non abbiamo amici o amiche, ma solo gentili ospiti”. Qualche anno dopo la rividi, faceva la ragazza immagine in qualche tv privata: “Vabè dai, lasciamo perdere”, sorrisi».
Meglio l’elogio di Maradona.«Nel 1996 riceve il Pallone d’oro alla carriera. La cerimonia si tiene all’ultimo piano del palazzo di France Football, a Parigi. In diretta con una radio argentina si lascia andare: “Sono qui con i più grandi giornalisti del mondo, Gianni Minà e Bruno Longhi”. Mi ha fatto volare sopra le nuvole».
Come lasciò a bocca aperta Zico?«Stavamo tornando da Cremona, dove aveva partecipato all’addio al calcio di Cabrini. Eravamo in macchina con le rispettive mogli, erano le 2 di notte. Ci ferma la polizia, gli agenti si avvicinano al finestrino e ci puntano la torcia addosso. Uno di loro lo riconosce: “Potete andare”, ci disse. Zico, ironico, finse stupore: “Ma sei proprio famoso tu eh”».
E quella promessa a Mazzola…«Ero nel suo ufficio. Dovevo intervistarlo, ma a un certo punto la segretaria lo chiama fuori. Sulla scrivania aveva lasciato un foglio su cui era scritta la formazione dell’anno seguente. C’erano Falcao e Giordano, evidentemente i primi obiettivi di mercato. Lui mi fece giurare di non dire nulla a nessuno, promettendomi che mi avrebbe ripagato. Quando prese Rummenigge, lo seppi prima di tutti».
E Moratti?«Tutti i sabati pomeriggio organizzava delle partite nella sua villa a Imbersago. Pensavo che col pallone fra i piedi fosse scarso, invece aveva un mancino favoloso. Per questo non rimasi sorpreso quando si innamorò di Recoba.
Ha un rimpianto?«Solo uno, la musica. Ho scritto qualche canzone che poteva avere maggiore successo. Mi sarebbe piaciuto un brano da tramandare ai posteri, quello che canticchi per strada e dici: “Ah, non era male”. Ho 77 anni, ma alla fine non è mai troppo tardi…».