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 2025  febbraio 16 Domenica calendario

Monsieur Pelicot era mio padre



PARIGI. Nell’album della famiglia Pelicot per quasi mezzo secolo non c’è stata una macchia, l’ombra di un sospetto. «Ti ricordo al volante della tua Renault 25 nera, strapiena di cose e valigie, pronto a partire per le vacanze», ricorda Caroline a proposito del padre. «Facevi battute, mettevi su Barry White e tenevi il ritmo con la testa, canticchiando il ritornello».

«Sembravi esaltato quanto noi, i tuoi bambini, stipati sul sedile posteriore». Pranzi domenicali, feste comandate, spensierate vacanze.

«Una commedia della normalità», ci dice ora Caroline.
«Quest’estate andiamo a fare una gita sulle strade del Mont Ventoux?». Qualche ora prima di essere chiamato dalla stazione di polizia, suo marito Paul aveva proposto al suocero una gita in bici sul percorso del Tour de France. Fu lui il primo ad essere allertato da Gisèle Pelicot. «Dominique andrà in prigione. Lo hanno sorpreso a filmare sotto le gonne di tre donne in un supermercato», aveva spiegato la donna al telefono dal commissariato di Carpentras, nella regione dove i coniugi Pelicot si erano ritirati per godersi la pensione. «La polizia ha requisito il suo cellulare, diverse carte sim, la videocamera e il computer portatile. Quello che hanno trovato è grave. Molto grave».
Il 2 novembre 2020, Caroline è precipitata in una nuova dimensione. Suo marito l’ha presa da parte, l’ha fatta sedere in cucina e ha richiamato la suocera. «Tuo padre mi drogava con sonniferi e ansiolitici» rivelò Gisèle alla figlia. «C’è dell’altro. Invitava degli uomini a casa nostra mentre ero priva di sensi in camera da letto. Ho visto diverse foto mie. Addormentata, a pancia in giù e sul letto. Ogni volta con uomini diversi, degli sconosciuti». È cominciata così ad affiorare una storia abnorme, un gigantesco iceberg rimasto sommerso per decenni. «La mia famiglia si è ritrovata a vagare in un labirinto in cui dietro ogni porta si scoprivano solo nuovi orrori», racconta Caroline.
A più di settant’anni sua madre, Gisèle Pelicot, è finita dentro un processo inedito per dimensioni e portata simbolica. Cinquanta imputati più uno, suo marito. E Caroline ha dovuto fare i conti con una nuova identità. Figlia della vittima e figlia del carnefice. «Uno dei più grandi predatori sessuali degli ultimi vent’anni». Lo chiama solo per nome e cognome: Dominique Pelicot. E ho smesso di chiamarti papà è il titolo del suo libro ora tradotto in Italia da Utet e firmato Caroline Darian. Un diario intimo scritto nell’urgenza di metabolizzare. «Sembrava davvero il tipico buon padre di famiglia. Mio marito aveva un bel rapporto con lui, anche mio figlio lo vedeva come un nonno premuroso», ci confida Caroline con uno sguardo duro, nel tentativo di controllare l’emozione.

Nel libro evoca tanti bei ricordi vissuti con suo papà.

«Era molto coinvolto nella vita familiare. In apparenza non aveva nulla del mostro che si è poi rivelato essere. Abbiamo trascorso momenti bellissimi insieme. Ma quando scopri la vera personalità di tuo padre a 42 anni, non puoi più conservare i ricordi d’infanzia come se fossero ancora qualcosa di vero e prezioso. È come se una parte di me si fosse dissolta».

Come ha fatto per non rimanerne travolta?

«Per me, mio padre è morto. Ma è ancora più difficile elaborare il lutto di un genitore ancora in vita».

Sua madre ha reagito diversamente. Ancora oggi porta il cognome Pelicot, mentre lei ha scelto di cambiarlo.

«Mia madre ha deciso di presentarsi al processo con il nome di Gisèle Pelicot per rispetto verso i suoi sette nipoti, ma dal settembre scorso è divorziata. Io non ho cambiato il mio cognome. Darian è uno pseudonimo che ho usato per scrivere. Rappresenta l’unione dei nomi dei miei due fratelli, David e Florian, che per me contano moltissimo. Io e mia madre non possiamo guardare al passato nello stesso modo. Lei ha trascorso metà della sua vita con Dominique, hanno avuto tre figli insieme. È probabilmente impossibile accettare di essersi sbagliata così tanto per cinquant’anni, di non essersi protetta e di non aver saputo proteggere i suoi figli. Ha deciso di divorziare, mentre noi abbiamo il dna di Dominique Pelicot, non possiamo spezzare un legame di sangue».

Non ha mai sospettato nulla?

«Mai violenza coniugale, mai gesti sospetti. Era un uomo normale sotto tutti gli aspetti. Non mi sento responsabile di ciò che ha fatto, ma non smetto di pensare alle vittime di Dominique Pelicot. C’è mia madre, ma oggi sappiamo che non è stata l’unica».

Sono state aperte altre due inchieste su suo padre per stupri e un omicidio. Cold case risalenti agli anni Novanta.

«In uno dei casi è stato trovato il suo dna. Probabilmente siamo solo all’inizio della verità su Dominique, anche se sarà complicato risolvere crimini così lontani nel tempo. E penso che con mia madre gli abusi possano essere iniziati già prima del 2011».

Durante il processo ha detto di sentirsi “la vittima dimenticata”. Perché?

«Sono convinta che le foto che mi ritraggono, ritrovate nel computer di Dominique dagli investigatori, non fossero lì per caso. Erano state cancellate e poi recuperate grazie all’analisi del suo materiale informatico. Nelle immagini è evidente che ero stata sedata. Durante i tre mesi di processo, Dominique non è stato in grado di darmi una spiegazione razionale. C’erano anche foto di me nuda. È chiaro che Dominique ha proiettato su sua figlia qualcosa di più di uno sguardo incestuoso. Solo lui detiene la verità, ma temo che morirà con i suoi segreti».

Eppure suo padre ha riconosciuto la sua colpevolezza.

«Non è stato capace di dire quanti uomini ha fatto venire a casa per violentare mia madre. È ovvio che sono molti più dei cinquanta che erano al processo. E non ha mai precisato quando tutto è cominciato».

Quali sono stati i momenti più difficili del processo?

«Quando ho cercato di ottenere delle risposte e Dominique è rimasto trincerato nel silenzio e nella menzogna. Scontrarmi con un muro d’indifferenza è stato insopportabile».

I suoi due fratelli hanno pronunciato parole dure, parlando di figura «diabolica».

«Sono traumatizzati quanto me. È stato uno tsunami che ha devastato le nostre rispettive famiglie. Mio figlio aveva sei anni quando suo nonno è stato arrestato. Con mio marito abbiamo dovuto spiegargli la situazione, ma può immaginare quanto sia stato difficile. Ciò che Dominique è stato capace di far subire a sua moglie, che a suo dire era l’amore della sua vita, è semplicemente abominevole. Un grado di violenza e di odio fuori dal comune. Siamo al limite della barbarie».

Cosa ha pensato vedendo sfilare gli altri imputati?

«Sono dei codardi, quasi tutti hanno sostenuto che non avevano intenzione di violentare mia madre. Questa difesa probabilmente riflette lo stato delle mentalità nelle nostre società. Molti imputati avevano una propria famiglia, erano uomini “normali” come mio padre, spesso più giovani. C’erano miei coetanei o addirittura trentenni, cresciuti in un contesto post-MeToo».

È delusa dalla sentenza?

«Molto. Doveva essere il processo simbolo contro gli abusi, gli stupri e la sottomissione chimica, ma in realtà, a parte Dominique, che ha avuto vent’anni di prigione, alla maggior parte sono state inflitte condanne tra i 3 i 10 anni. Se in un processo come questo non siamo riusciti a ottenere pene esemplari, cosa si può sperare per altre vittime che non hanno avuto la stessa attenzione mediatica?».

A settant’anni sua madre è diventata un’icona del femminismo, pur non essendo mai stata una militante.

«No, non lo è mai stata. Era una donna concentrata sulla famiglia, il lavoro, e negli ultimi anni sui nipotini. Io, invece, sono sempre stata sensibile alla causa delle donne. Per la mia generazione è qualcosa di naturale».

Gisèle Pelicot ha scelto però di rendere pubblico il processo. Un gesto forte.

«È quello che auspicavo e, qualche mese prima del processo, mia madre ha capito che se non lo avesse fatto sarebbe stato un regalo non solo a Dominique ma anche ai suoi complici. Sapevo che ci sarebbe stata una grande risonanza in Francia. Non immaginavo l’eco mondiale del processo. Forse le persone hanno bisogno di simboli per riuscire ancora a sperare».

Come ha fatto Gisèle a trovare il coraggio di andare in tribunale a viso scoperto, sfidando i suoi aggressori?

«Ha sempre mantenuto un certo pudore anche con noi. Durante il processo non abbiamo mai saputo veramente cosa pensasse. Ha attraversato questa prova».

Ha mandato un messaggio forte alle altre vittime di stupri: parlate, non abbiate vergogna.

«Sì, ed è anche ciò che ho scritto nel mio libro: la vergogna deve cambiare campo. Vorrei che questa frase risuonasse nella testa di milioni di persone».

In che modo avete affrontato il processo in famiglia?

«Mia madre ha voluto viverlo in solitudine, ritirata nel suo spazio. Con i miei fratelli siamo stati molto uniti. Una parte della nostra vita è sfilata in quel tribunale di Avignone. Abbiamo ferite e dobbiamo affrontare un processo di riparazione che non è lo stesso di nostra madre».

È difficile convivere con la improvvisa notorietà di sua madre?

«Non sono per trasformare le vittime in star. Ma se questo può aiutare la causa delle donne, tanto meglio. A me interessa il dopo-processo, il cambiamento delle mentalità e delle politiche».

Qualcuno ha parlato di “processo al patriarcato”.

«Assolutamente. Il processo ha puntato i riflettori su violenze sistemiche, sulla cultura dello stupro che attraversa le nostre società. Abbiamo ancora molta strada da fare. I diritti delle donne non sono mai acquisiti. Pensavamo che dopo il #MeToo le mentalità sarebbero cambiate. Al contrario. È un eterno ricominciare».

Ci sarà al processo di appello?

«Dominique non ha fatto appello, quindi non è più il mio processo ma soprattutto quello di Gisèle contro i suoi aggressori».

In questa nuova fase come vive Gisèle?

«Ha ripreso la sua vita di prima una vita più tranquilla, lontano dal clamore e dai media. Sta recuperando energie e cerca di godersi gli anni che le restano».

Lei ha interrotto qualsiasi contatto con suo padre?

«Non voglio più averne. Ora conosco la sua vera personalità. È un bugiardo e manipolatore. Ha continuato a recitare una parte anche durante il processo, sostenendo di avere rimorsi o problemi di salute. Non ci credo».

Con la sua associazione #MendorsPas, NonMiAddormentare, vuole lanciare un allarme sulle aggressioni sessuali attraverso sottomissione chimica. Qualcosa sta cambiando?

«Il termine “sottomissione chimica” non era conosciuto prima di questa storia, nonostante sia un fenomeno molto diffuso e non solo in discoteca. Molti casi si verificano nelle case, nelle famiglie. Grazie al processo, ora se ne parla ma bisogna che la giustizia e la società prendano pienamente coscienza del problema. Ricevo tantissime testimonianze. Molte vittime non si rendono conto di esserlo. Una delle mie priorità è aiutare queste persone a dare un nome a ciò che hanno vissuto».

Come si sente oggi?

«Cerco di ritrovare una normalità, tra la mia vita professionale e i miei impegni associativi. Stiamo preparando una grande campagna di sensibilizzazione sulla sottomissione chimica e lavoriamo con le istituzioni per migliorare la formazione del personale medico».

Ripensa spesso a quel giorno in cui suo padre è stato arrestato?

«Una parte di me, all’inizio, avrebbe voluto restare nella vita di prima, in quella che sembrava una famiglia ordinaria, persino banale. Ma ringrazio i poliziotti che hanno arrestato mio padre nel supermercato. Se non lo avessero fatto, Gisèle non sarebbe sopravvissuta. Dominique avrebbe finito per ucciderla. Io ne sono assolutamente certa».
dalla nostra corrispondente Anais Ginoridalla nostra corrispondente Anais Ginori


 
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