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 2025  febbraio 24 Lunedì calendario

Un cartoon racconta la crisi di nervi degli Usa


Un ragazzino dice: «Se qualcuno vince, qualcun altro perde». Si apre con questa frase, seguita da un’esecuzione dell’Ave Maria di Schubert, Win or Lose ovvero la nuova serie animata al computer da otto puntate prodotta dai geniacci della Pixar, in programma su Disney Plus. Siamo in una cittadina americana dove la squadra giovanile di softball denominata Pickels sta per affrontare le finali del torneo nazionale. Come spesso capita agli autori di capolavori come Toy Story (1995), Up (2009) o Inside Out (2015), l’approccio al cartone animato è adulto e inusuale.
I creatori e registi Carrie Hobson e Michael Yates raccontano peripezie di una squadra di softball concentrandosi su tematiche come ansia da competizione, senso di inadeguatezza e pressione sociale. In più i protagonisti di ogni episodio sono vittime di allucinazioni venendo rappresentati dai registi come prigionieri delle loro fantasie spesso autolesioniste. Abbiamo davanti agli occhi gli Stati Uniti sull’orlo di una crisi di nervi, sia tra i maggiorenni che tra i minorenni. Sono usciti solo i primi due atti dell’opera ma sia la prima puntata su Laurie, figlia dell’allenatore dei Pickels, che la seconda su Frank Brown, arbitro del torneo e insegnante nel liceo locale, sono emblematiche circa le intenzioni. Laurie se ne va in giro con una perlina di sudore violacea come amico immaginario, simbolo del suo complesso di inferiorità perché incapace nello sport e pertanto convinta di non essere stimata soprattutto dal papà coach. Il solitario Frank viene visualizzato da Hobson e Yates come un quarantenne compresso dentro un’armatura da cavaliere medievale perché rassegnato a incassare solo mazzate da chiunque, specie da un genere femminile dal quale si sente puntualmente respinto.Ovvio che ci siano anche momenti divertenti (le evoluzioni di Laurie e Frank sul campo da softball durante le partite sono comiche e adrenaliniche) ma ciò che colpisce di Win or Lose è la complessa struttura polifonica (ogni episodio si concentra su un personaggio diverso) e la concentrazione Pixar nel descrivere problemi psicologici piuttosto che dedicarsi a soluzioni ridanciane o scacciapensieri. Che bravi. Anche perché questa è la loro prima serie completamente indipendente rispetto alla sfilza di loro lungometraggi capolavori che tutti conosciamo.
Non è mai insicuro anzi appare sempre indistruttibile sia fisicamente che mentalmente l’ex Maggiore della Polizia Militare Usa Jack Reacher, anche se lui preferisce essere interpellato solo via cognome. Il personaggio inventato su carta da Lee Child, star di 29 romanzi e 12 racconti, guida la terza stagione di Reacher, scritta e ideata da Nick Santora, su Prime Video. Lo interpreta il biondo e massiccio Alan Ritchson, laddove Tom Cruise vestì i panni di questo giustiziere privato in due film nel 2012 e 2016. Questa nuova stagione si apre con Reacher che prova a vendere senza successo il famigerato vinile delle canzoni da discoteca della veterana del musical Ethel Merman in una cittadina collegiale del New England. Che ci fa lì? Entrerà in contatto con l’Fbi per indagare i loschi traffici di un supposto venditore internazionale di tappeti interpretato dall’ex enfant prodige degli anni ’80 Anthony Michael Hall, desiderato da Stanley Kubrick per il ruolo del soldato Joker in Full Metal Jacket (1987). Questo show tv sta piacendo più dei film con Cruise. Perché? Ritchson somiglia di più al personaggio inventato da Child, soprattutto nel suo aspetto minaccioso e da troglodita palestrato che in realtà nasconde nobiltà d’animo e quoziente intellettivo oltre la media.