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 2025  febbraio 24 Lunedì calendario

Cesare Prandelli parla di calcio, affari e affetti


Ave Cesare fu Claudio. Nel senso che Prandelli nasce a Orzinuovi, provincia di Brescia, ma la prima, vera avventura della sua vita la scopre più tardi. Mamma e papà si mettono d’accordo sul nome. Cesare, come il nonno. Ma, di nascosto, Prandelli senior lo registra come Claudio. Non lo sa nessuno a parte il tecnico, a sei anni però, grazie a una maestra che fa l’appello a scuola. Addirittura nelle mitiche «Figu» Panini, per anni, da giocatore, se incollavi Prandelli all’album sotto c’era scritto Claudio Cesare. Insomma, una disavventura. La prima di altre ben più gravi che hanno fatto ritirare troppo presto dal calcio un allenatore molto capace e un uomo perbene e tranquillo. La scomparsa della moglie Manuela, nel 2007, dopo una lunga malattia in cima a tutto. Un dolore insormontabile che cambia, più del nome di cui sopra, la vita del tecnico che in una cima, ma molto diversa, in diverse panchine ci era arrivato eccome, e pure meritatamente.Tocca partire da qui. C’è un Prandelli prima e uno dopo la morte di sua moglie?(Sospira a lungo). «Eh, eh, sicuramente. È una domanda che non mi è mai stata fatta. Sì, è tutto cambiato ma poi cerchi di avere equilibrio anche per la famiglia, ma cambia tutto. Prospettive, abitudini, tutto».Lei come sta? Ha avuto qualche problema di salute.«Diciamo che sto molto meglio. Poco tempo fa ho avuto una fortissima e improvvisa polmonite. Sono stati bravi i medici dell’ospedale civico di Brescia. Li devo ringraziare. Sono stato fortunato, adesso sto finalmente bene».Con gli scarpini ha vestito le maglie di Cremonese, Atalanta e Juventus. Le gioie maggiori sono state i tre scudetti o le coppe in bianco e nero?«Degli anni con la Juve ricordo un gruppo che non è mai stato unito. C’erano i giovani, gli intermedi e i senatori. Ma quando si scendeva in campo diventavamo una cosa sola. Poi dopo la partita manco ci salutavamo. Nel tempo, nella mia carriera, quando sentivo e sento ancora parlare di gruppo facevo fatica a raccontare di quegli in anni in bianco e nero. Vede, ci sono tanti modi di fare gruppo, non bisogna per forza andare a cena ed essere amici. A Cremona all’inizio andavo a scuola, poi papà morì e in fin di vita mi disse di non lasciare il calcio, mi ha convinto lui perché non avevo tutte ste motivazioni. Mia madre senza bei voti non mi mandava agli allenamenti. Ci pensò la società, mi aiutarono con la scuola Luzzara e Miglioli, persone super, perché per il calcio facevo troppe assenze. Anche a Bergamo ho trovato un’altra famiglia straordinaria, i Bortolotti, riferimenti umani che mi sono portato dietro per sempre. Con Cesare eravamo veramente amici».In quella angosciante notte dell’Heysel lei c’era. A distanza di anni che cosa non andrebbe rifatto?«Ah beh, tutto. È stata una tragedia gigantesca. Lo stadio non era idoneo, dovevano controllare persino i calcinacci ma niente. Ricordo benissimo che eravamo nello spogliatoio e vedevamo soltanto uno spicchio della curva inglese. All’improvviso entrarono, sempre negli spogliatoi, centinaia di tifosi. Li facemmo passare perché erano bianchi, erano terrorizzati. Urlavano: morti, morti, morti. È stato angosciante. Non vedevano nemmeno, chessò, Platini, Boniek e altri campioni. Boniperti, altro signore vero, decise di non giocare ma poi le solite dinamiche politiche... Il delegato Uefa spiegò che bisognava giocare altrimenti la situazione poteva peggiorare. Mah. Altra cosa da smentire: assolutamente falso che abbiamo festeggiato, è che ci hanno davvero costretti ad andare sotto la curva con la coppa per tenere tranquilli i tifosi».Prandelli tecnico. Tutto comincia nella sua Atalanta. E negli anni una persona importante per lei diventa l’immenso Mino Favini, uno dei più grandi esperti di settori giovanili in Italia. La squadra del suo debutto è quella degli Allievi e tanto per cominciare vince subito uno scudetto.«Ho smesso di giocare presto per un problema al ginocchio. Facemmo un lavoro più che altro tecnico. C’era un grande e unico spogliatoio per i vari tecnici e c’era una grande famiglia. Tutti insieme appassionatamente. Io, Finardi, Vavassori, Perico, Modenesi, Rubagotti, Savoldi, Gustinetti. Un solo progetto condiviso da tutti. E Mino era giustamente fissato. Tecnica, tecnica, tecnica e solo tecnica. Ecco, da qui si dovrebbe ricominciare. Dai settori giovanili, dalla tecnica, abolendo moduli e sistemi di gioco fino ai quattordici anni».Più avanti tocca al Parma. Quinto posto in A. L’apice. Tanto che dall’altra parte del telefono chiama la Roma. Nella Capitale, dopo tre mesi, quando il pallone deve ancora cominciare a rotolare in campionato, si dimette per l’ennesima volta. Ma di questo abbiamo già parlato.«Eh, sì. A Parma ho fatto due anni straordinari, era una squadra rivoluzionata e giovanissima. Siamo arrivati due volte quinti a un punto dalla Champions, l’ultimo anno mancata per una partita persa con l’Inter grazie a un gol di Adriano che gli avevamo appena venduto. Dopo capitò il crack Parmalat e mi dispiace immensamente perché avevo un rapporto ottimo con famiglia Tanzi, soprattutto con Stefano, un amico. Roma era un sogno, ma è successo quello che si sa. Manuela ebbe una recidiva, non potevo lasciarla sola, le cure erano importanti, toste. Alla Roma c’era la famiglia Sensi e Franco Baldini. Sono stati meravigliosi. Tutti. Salutai i ragazzi senza dire di Manuela, non capivano ma quando hanno saputo mi hanno fatto delle bellissime telefonate».Messa in un angolino del cuore la tragedia familiare perché superarla non si può, arrivano gli anni d’oro di Firenze. Cinque. Successi, la prima panchina d’oro, Fiorentina che conquista piazzamenti storici, record di panchine e di vittorie davanti a un certo Fulvio Bernardini.«Decisamente. Firenze è entrata, ci è rimasta e resterà sempre nel cuore tanto che vivo qui da allora. Ci sono amori che nascono spontaneamente, senza costrizione, senza costruzione. Il primo anno arrivammo subito in Champions ma nel secondo ci furono le sentenze per la cosiddetta «Calciopoli». La sera eravamo improvvisamente in B a causa della penalizzazione. Era il giorno della presentazione della squadra ai tifosi. Erano tutti con la radiolina all’orecchio. Aspettavano notizie, non capivano, erano preoccupati. Mi sono sentito di parlare dal profondo dell’anima. Dissi loro che non potevo sapere che cosa sarebbe successo ma che io sarei rimasto su quella panchina. Anche i ragazzi mi restarono accanto e da lì nacque questo rapporto incredibile con i tifosi viola. Che, ovvio, erano orgogliosi dei risultati e del bel gioco ma Firenze ti ama se sei un uomo e se la rispetti. Il resto viene dopo».A sto punto la valigia, quella di lunghi viaggi, la porta fuori dai confini. Turchia, Spagna e Emirati Arabi. In ordine: esonero, dimissioni, esonero. Non si trovano dati veramente ufficiali ma non è che tra licenziamenti e scelte di abbandonare ha un record?«Non lo so e mi interessa poco, anzi zero. Chiariamo. In Turchia ci furono promesse non mantenute, il presidente venne cacciato dal socio, la nuova proprietà cambiò l’allenatore ma mi mandarono via con il Galatasaray secondo in classifica. Alla fine vinsero e mi fecero una dedica che apprezzai moltissimo. A Valencia diedi le dimissioni dopo due mesi e mezzo perché non vennero mantenuti accordi tecnici, insomma le solite cose. All’estero, secondo me o vai per soldi o perché hai una grande delusione. Questo è il mio caso. Lotito mi convinse ad andare alla Lazio ma mi tenne ventiquattro giorni prigioniero, ribadisco il termine prigioniero. Mi telefonava tutti i giorni raccomandandosi di non ascoltare altre proposte che arrivavano, invece, eccome se arrivavano. Poi Presero Simone (Inzaghi). Così scappai letteralmente all’estero alla prima proposta».Mi scusi Prandelli, ma ha un castoro in braccio?«Cosa????????».No, scusi, era per dire ma in questi quaranta minuti si sente un sottofondo come se ci fosse un roditore che, appunto, rosicchia qualcosa.«Ah, ah, ah, ah. Mi scusi, la smetto subito, me lo poteva dire che dava fastidio. No, no, alcun castoro. È che da sempre quando parlo al telefono disegno e coloro».E il Prandelli del futuro?«A volte mi chiamano i miei ex giocatori. L’ultimo è stato Frey. Dice: mister ma legge e sente commentatori che applaudono alla costruzione dal basso? Ma a Parma giocavamo così vent’anni fa». Ha ragione Seba. Facevo così anche a Firenze e, attenzione, allora i calciatori non potevano entrare in area per palleggiare con il portiere. Nel calcio puoi scomporre i principi ma i concetti sono quelli. Creare superiorità, attaccare la profondità, avere equilibrio. Le cosiddette marcature preventive... Anche quelle le utilizzavamo decenni fa. Un po’ di responsabilità l’hanno anche i commentatori che vogliono vendere un prodotto. Ma il calcio non si vende, si gode. Troppi commenti, abbiamo perso l’emozione per un gesto tecnico. Una volta ci si ricordava della rovesciata di Vieri, del tacco di Mancini, della corsa di Vialli. Adesso sono soltanto statistiche, vedi il possesso palla. Ecco, che palle!». —