il venerdì, 22 febbraio 2025
Facciamo numeri da circo
SIVIGLIA. Ma che siamo, al circo?!? Sì, siamo al circo, però qui è tutto ordine e precisione, mica charivari e caciara, donne cannone e cammelli scappati. Ve lo dico io che, per fare un reportage sul Cirque du Soleil, atteso in Italia dal primo marzo con il suo trentennale cavallo di battaglia Alegría, sono dovuta andare a Siviglia a ottobre. Perché ogni spettacolo del Cirque, abbreviato in CdS, è un mammut che si muoverà certo con la leggerezza di una farfalla, ma sposta, nel caso specifico, 119 persone e ne ingaggia altre 150 nelle città in cui pianta il tendone (560 picchetti ficcati per un metro e mezzo sotto terra). Quindi: pianificare tutto con un certo anticipo, anzi molto, è la prima regola.
E infatti il mio elenco di interviste è programmato rigorosamente: alle tre del pomeriggio la contorsionista mongola, alle tre e un quarto i due clown spagnoli, alle tre e mezza il trapezista venezuelano e poi vari ed eventuali scambi di battute con lanciatori di bastoni infuocati, virtuosi dell’hula hoop o cuoche da reggimento. Ma non domatori di tigri o di pulci, perché qui di animali non ce ne sono: il CdS è l’erede diretto e di maggior successo di quella stagione che negli anni Settanta bandì l’ingresso sotto lo chapiteau a gabbie, fruste e domatori. Per fare spazio alla poesia, all’utopia, all’allegoria, all’armonia, e tante belle cose che fanno rima in ia. Se però l’assetto è quello da grandi manovre prussiane, il clima è molto più bonario e rilassato. Cool, insomma.
Stiamo parlando del più grande circo al mondo, che in quarant’anni di vita è diventato un fenomeno globale, con 400 milioni di spettatori in 86 Paesi. Al momento ci sono 17 suoi show in scena, compresi cinque residenziali a Las Vegas, uno a Orlando e una cena-spettacolo a Riviera Maya, in Messico. Una multinazionale con radici canadesi e sede a Montréal, fondata nel 1984 da un mangiatore di fuoco ambulante, il ventenne Guy Laliberté, oggi, e da tempo, in felice ritiro nel suo atollo del Sud Pacifico, dedito all’attività di disc jockey, ma anche al turismo spaziale.
Questo non è un lavoro
Con il Covid, il Cirque du Soleil ha passato momenti buissimi, è finito in bancarotta perché il pubblico stava a casa a guardare la tivù. Ma adesso, rilevato da una cordata di creditori, ridà lavoro a cinquemila persone. In buona parte le stesse che aveva dovuto licenziare nel 2020. «In realtà il circo non è un lavoro. È uno stile di vita», dice Duncan Fisher, presidente del dipartimento Spettacoli in tournée del Cirque du Soleil Entertainment Group. «Quando ti unisci al circo, ti unisci a un diverso stile di vita, viaggiando sempre con lo stesso gruppo che diventa il tuo clan, la tua famiglia. E ci sono un sacco di bei momenti, ma anche di difficoltà: stai all’aperto per la maggior parte del tempo, hai a che fare con il meteo, Paesi sconosciuti, culture diverse. È anche una sfida vivere in questo modo, praticamente in una valigia. Non solo gli artisti, ma anche i tecnici, tutti quelli che lavorano allo spettacolo, abbracciano questa natura, la resilienza, la capacità di cambiare quello che stai facendo in un minuto, ma anche di divertirsi. E posso dire che è molto divertente – parlo in prima persona perché ero un artista tanti anni fa. C’è una natura molto avventurosa negli artisti circensi: quell’idea di scappare con il circo esiste davvero». Da ragazzo Duncan era un campione inglese di ginnastica, poi è diventato acrobata ed è scappato con il circo. Arrivato in America, faceva un numero tuffandosi su tre elefanti e il proprietario gli chiese se voleva fare qualche soldo in più aiutando a montare e smontare il tendone e a caricare i camion: si fece un’esperienza nella logistica. Se la fece così bene che a 24 anni lasciò le acrobazie per passare al management.
Succede che si cambia ruolo quando si lavora in un circo: gli artisti, che spesso sono degli ex olimpionici, intorno ai quarant’anni diventano istruttori o manager o impiegati e qui ogni termine va declinato anche al femminile. Quello circense è comprensibilmente un ambiente con un alto tasso di endogamia e le famiglie si riproducono. Osserva Duncan: «Finiamo sempre con più figli di quanti ne avevamo all’inizio». Se una volta c’era la scuola itinerante per i bambini, adesso si interviene con la didattica a distanza o altre forme di insegnamento più personalizzate, anche perché non ci sono più le roulotte: visto che in ogni piazza ci si ferma almeno un mese, il management affitta appartamenti per tutto lo staff, possibilmente nello stesso quartiere e non lontano dallo chapiteau. Ed ecco che programmare con larghissimo anticipo diventa la parola d’ordine, come nella logistica militare. Per dire: al quartier generale di Montréal lavorano mille persone.
Chi vola e chi prende
Con i suoi quattro fratelli, il venezuelano Ammed Tuniziani rappresenta la quarta premiatissima generazione di trapezisti della sua famiglia. Lui ha cominciato a otto anni e ripeterebbe l’esperienza con i figli perché «così, il corpo si abitua». Anche il suo corpo ha dovuto abituarsi: una spalla rotta, un disco lesionato e tre dita fratturate. «Una volta ho battuto il medio contro il polso di mio fratello che mi prendeva». La casa di famiglia è a Las Vegas, dove lui ha lavorato in uno spettacolo residenziale del Cirque; la moglie al momento è a Vancouver, dove è assistente della Direzione acrobati. I trapezisti si dividono fra flyer e catcher, chi vola e chi prende: lui appartiene al primo gruppo. In genere si dura fino ai 35 anni, Ammed ne ha 34 e poi vorrebbe mettersi a produrre.
Francis Jalbert, responsabile stampa dello spettacolo, mi ha detto che le reazioni del pubblico cambiano molto da Paese a Paese. I giapponesi non esteriorizzano le emozioni, gli spagnoli sì e battono i piedi per terra per l’entusiasmo. Vedremo quello che succede qui a Siviglia. Io spero di non esteriorizzare troppo – con sobbalzi o peggio: gridolini – la preoccupazione per i trapezisti che volteggiano sempre più in alto o per gli acrobati che saltano a velocità ultrasonica sulla rete, rischiando di schiantarsi uno contro l’altro. D’altra parte Ammed mi ha appena raccontato dei suoi incidenti e Francis ha ammesso che qualche salto mortale per davvero c’è stato nella storia del CdS. La dura verità, riveduta e un po’ ammorbidita dai tempi del Colosseo, è che uno dei principali ingredienti dello spettacolo è il piacere della paura. Quindi, anche a Siviglia, venti secoli dopo, il pubblico paga il biglietto per temere che un disgraziato cada da chissà quanti metri. Non cade nessuno e i clown, strepitosi, con il loro irresistibile esperanto comico, suscitano fiumi di insensatissime e meravigliose risate.
Rompere gli schemi
Niente di meglio dei clown, per parlare dell’universalità senza parole del circo. I due Pablo, Bermejo e Gomis Lopez, vecchi amici e allievi della Commedia dell’arte, sono anche maestri, nel senso che la insegnano, della nobile disciplina della comicità fisica. In ogni Paese imparano tre-quattro parole della lingua locale e le infilano nel grammelot dei loro numeri stralunati da vecchia coppia – con uno dei due un po’ effeminato. «Ma nella vita, con le donne, andiamo fortissimo, le facciamo ridere». Ci vuole mestiere per strappare una risata non solo alle donne, ma al pubblico di dieci, undici show a settimana: «Non ci devi pensare troppo e devi essere intelligente nel fare lo stupido». Domanda: il Cirque du Soleil avrà perso l’energia ribelle dei primi anni? «I proprietari oggi hanno uno spirito diverso, ma la gente che ci lavora è sempre la stessa, anche se i più giovani postano un sacco di video. Comunque, i clown devono rompere gli schemi e la compagnia ci dà lo spazio per farlo».
La trama siamo noi
Alegría, titolo del 1994 già passato in Italia nel 2006 e in ripresa dal 2019 con il restyle Alegría – In a New Light, è uno dei pezzi forti del repertorio CdS, che comprende una trentina di grandi spettacoli più altri eventi minori. Racconta la lotta di potere fra vecchio e nuovo ordine in un regno che ha perso il suo re, mentre il giullare di corte tenta di usurpare il trono. Io, tutto questo, l’ho capito solo dal comunicato stampa. Perché guardando lo spettacolo mi è sembrato di assistere a un piacevole susseguirsi di numeri acrobatici e non, giocolerie, clownerie, coreografie e canzoni senza un particolare filo conduttore. Ma questo non è un problema, anzi: Duncan Fischer mi rivela che il vero segreto del Cirque du Soleil è aver creato un ambiente capace di trasportare le persone lontano dalla vita quotidiana senza dir loro necessariamente con quale storia. «Unendo le arti circensi, l’aspetto teatrale, la musica, la danza come non erano mai stati combinati prima, ti lasciamo immaginare la tua trama. In ogni nostro spettacolo c’è effettivamente un intreccio che il regista usa per tessere l’insieme, ma non importa se il pubblico non capisce esattamente cosa aveva in mente. Perché, in realtà, quel che noi facciamo è ricreare mondi, non storie. E qualunque cosa tu veda, quella è la storia che va bene per te». Riassumendo: il filo narrativo serve molto di più all’autore che deve costruire un opera piuttosto che allo spettatore, fruitore di quell’opera. E il discorso si potrebbe applicare anche alla composizione musicale o alla pittura.
Quando si riprende uno spettacolo del secolo scorso, si crea il problema di come rispettarne la tradizione, ma anche di come aggiornarlo al presente. Nell’innovazione, la parte più importante la svolge la tecnologia, che arriva a rivoluzionare gli effetti scenici. Ma cambiano anche gli artisti e, con loro, il confine fra retaggio e oltraggio si fa più complesso. Nel senso che anche le prestazioni fisiche si sono evolute, basta vedere i progressi dei record alle Olimpiadi, frequentate da non pochi artisti del Cirque. Quindi, l’importante è mantenere il sentimento con il quale si interpreta un personaggio o un’atmosfera. Rachel Lancaster, direttrice artistica di Alegría – In a New Light, ammette che spettacolo e pubblico cambiano anno dopo anno. «E vedo anche come il pubblico cambia lo spettacolo tra le rappresentazioni pomeridiane durante la settimana e quelle del venerdì sera. Noi stiamo attenti a mantenere una road map, ma è anche vero che le cose migliori nascono dagli eventi incidentali e così bisogna saper includere imprevisti o cambiamenti, se migliorano lo spettacolo e non lo tradiscono».
La contorsionista mongola Oyun-Erdene Senge è entrata nel CdS a 11 anni, scortata dalla sua istruttrice-garante che, nonostante i requisiti di flessibilità della disciplina praticata e insegnata, era particolarmente inflessibile. Ha iniziato a contorcersi a sei, perché sua madre era stata ispirata da un famoso maestro visto in tv: va detto che il contorsionismo è molto popolare in Mongolia, un po’ come la danza da noi. Poi la mamma è morta e la zia si è incaricata di eseguire le sue volontà. «Nel mio Paese nessuno si è stupito, ma sono stata rispettata in ogni posto dove sono andata. Non è stato troppo triste lasciare la famiglia, mi sono divertita nel Cirque». Dice che potrebbe continuare fino a 45 anni; fino a 60 facendo molto stretching; oggi ne ha 31. E la forza conta molto più della flessibilità: un rapporto 70 a 30. Dice anche che si può praticare nei primi mesi di gravidanza: «Mostriamo cosa possiamo fare con il nostro corpo, come gli animali che cambiano forma».
Il circo, in genere, si regge sulle dinastie familiari. Ma non il Cirque, e questo piace molto al friulano Davide Comuzzi, assistente del reparto luci, che prima lavorava nei teatri italiani, anche stabili, con stipendi molto inferiori e nepotismi non da poco. «Qui il merito è la cosa più importante e la qualità tecnica è migliore che in teatro. Ma del teatro mi manca la fase creativa di quando si allestisce uno spettacolo nuovo, mentre al Cirque puoi andare avanti per dieci anni con lo stesso». Però le ombre volanti degli acrobati proiettate dalle sue luci sul cielo del tendone continuano a piacergli tanto.
Finché morte non ci separi
Gli acrobati fanno un mestiere pericoloso e tutti, colleghi e tecnici, devono prendersi carico della loro sicurezza. Davide con le sue luci per non lasciarli mai al buio e Sophie Berard, responsabile dei costumi che, con una squadra di dieci persone, segue 60 artisti e almeno 120 cambi, con accuratissimi controlli: «Un esempio? Abbiamo un copricapo fatto con la fibra della barba di Babbo Natale: se lo metti in lavatrice e i ciuffi si allentano c’è il rischio che si incastrino con il trapezio. E allora addio».
Come e peggio di una consulente matrimoniale ho molestato tutti gli intervistati con domande sul loro status sentimental/familiare in condizione di nomadismo circense. E, con situazioni a volte di endogamia (ufficio stampa e contorsionista) e altre di amori a distanza così lontani così vicini, sono risultati tutti serenamente accasati. Sophie no, con un placido sorriso si dichiara single: «Io sto bene così, la mia famiglia è il circo».