il manifesto, 22 febbraio 2025
Hanif Kureishi, quel che non si può rompere
Quando una malattia colpisce il corpo predestinato, può procedere lentamente, con una lunga serie di sintomi, oppure arrivare come un fulmine all’improvviso. In tal caso sarà «la grande disgrazia» che divide l’esistenza in un «prima» e in un «dopo». Una drammatica, grande disgrazia accadde a Hanif Kureishi, nel 2022 in visita a Roma alla famiglia di Isabella D’Amico, sua moglie. Dopo una passeggiata a Villa Borghese, tornato a casa, cadde in una pozza di sangue e restò immobile, mentre le sue mani a sua insaputa vagavano, avvicinandosi al suo volto come animali sconosciuti. Precisa e crudele delle varie trasformazioni che corpo e psiche subirono, un memoir atipico ci fa partecipi di questo terribile passaggio personale: pubblicato in inglese con il titolo Shuttered, in italiano è In Frantumi (traduzione di Gioia Guerzoni, Bompiani «Overlook», pp. 238, euro 17,00).
Si scopre in esso che da quel corpo infranto nacquero fantasmi diversi che lui riconobbe gradualmente attraverso le reazioni di amici, infermieri, fisioterapisti. Furono le infermiere italiane che per prime, cantando, lo lavarono e gli rivelarono l’infantilismo della nuova condizione, quando si manifestarono le prime esperienze corporali. I vezzosi termini infantili, pipì e popò, furono immediatamente sostituiti dalle crude parole degli adulti che osservarono le proprie feci per la prima volta.
Questi nomi, una volta tabù, compaiono nelle pagine eleganti e misurate di Kureishi, formando una catena semantica che coinvolge anche la nominazione dei genitali, lavati, variamente accuditi, innegabilmente estranei a delicatezze letterarie. L’aspetto quotidiano della realtà è alterato. Il rituale delle cure ospedaliere, lo squallore della stanzetta, le situazioni grottesche: la testa incastrata tra le barre del letto, il tablet caduto per terra che proietta le immagini del film sul soffitto, i colloqui con Isabella sempre presente, adesso di natura differente. «Le mie difese, senso dell’umorismo e una passione per le battute, non riescono a farmi superare tutto questo, l’odore dell’ospedale, il senso di angoscia, l’orrore per la mia condizione, la costante consapevolezza di essere disabile, di essere seppellito nel mio corpo». Sensazione che fa da sfondo emotivo a tutto il libro.
La voce narrante comprende che per curare quel corpo frantumato deve ricostruire il Kureishi giovanissimo, raccontare il suo passato, i suoi genitori, la madre inglese noiosa con le sue frasi fatte (vedi Pinter), il padre pachistano, geniale giornalista, i primi amici a scuola e i nemici, il razzismo degli inglesi degli anni del dopoguerra. Partecipa alla sperimentazione del Royal Court Theatre, si contagia dell’energia degli Young Angry Writers. Prova tutte le droghe, legge tutti i romanzi erotici, da D.H. Lawrence fino, indietro al vittoriano The Doll.
A dileggiare i pittoreschi fantasmi del passato, compare l’immagine e la speranza del corpo perfetto, irraggiungibile al di la della malattia e del tempo, con la bellezza e l’equilibrio desiderato da chi l’ha perso e che ancora lo desidera. La fisioterapia lancia una promessa, i corpi giovani e belli che incontrava al Santa Lucia si mescolano a quelli degli amici in carrozzella che vengono a lamentare con lui dei tabù violati, dell’intimità perduta, della vergogna, di quelle parti intime inesorabilmente esposte. Ricorda la nascita di se stesso giovane scrittore: uno scarabocchio era stato l’origine di una parola ancora sconosciuta, che avrebbe spinto un’altra parola e un’altra ancora, in definitiva un racconto.
Era appena uscito il capolavoro di Salman Rushdie I Figli della mezzanotte, che aveva vinto il Booker Prize: «Salman era un buon amico e un ottimo esempio da seguire e mi incoraggiava sempre». Il mondo di noi immigrati dai Caraibi, dal Bangladesh e dall’India nel gelido clima inglese lo avevo conosciuto in prima persona, e decisi di scrivere un libro sullo stesso non facile argomento. «C’era una nuova demografia, accompagnata da un’enorme trasformazione sociale, la composizione razziale e religiosa di intere città stava cambiando».
Diventerà il suo tema preferito, che tratterà nel suo libro più noto, Il Budda delle periferie. Era la sua stessa esperienza. Kureishi divenne poi famoso con il film My Beautiful Laundrette, altra arguta e audace visione della nuova situazione sociale e politica della sua generazione. La grande disgrazia sembra mettere fine a tutto questo, rendendo impossibile rassegnarsi. L’autore torna a Londra, ai suoi figli e alla loro madre, agli amici, ai luoghi e agli ospedali inglesi, accuratissimi i fisioterapisti e ben educati, ma secondo lui, inferiori a quelli italiani. E vuole incontrare i colleghi del passato, che lo accolsero affettuosamente. Cerca di ricostituire un rapporto con il suo vecchio psicanalista lacaniano. La vita sessuale si è spenta, ma le consuete domande continuano a tormentarlo «perché mi è successo a me, quando gli altri se ne vanno a spasso godendosi la vita (…). Sono stato in 5 ospedali nel giro di un anno, finalmente vado a casa. Ricomincia una vita quasi normale…ora passo tutto il tempo in cucina e in soggiorno, ma almeno dicono tutti sono a casa, però mi sento in imbarazzo».
Festeggia il Natale con i figli e Isabella, e ricorda: è passato un anno dalla famosa disgrazia, che lo ha ridotto ad una vita per sempre alterata, da tetraplegico. «Cambiamo di continuo, impossibile tornare indietro. Il mio mondo ha preso male una curva mente prima filava via dritto; è stato distrutto, rifatto e alterato, e io non posso farci niente. Ma non mi voglio lasciare andare: di tutto questo voglio fare qualcosa». Fatto: questa dolorosa testimonianza è buona letteratura, e dona conforto.