Corriere della Sera, 22 febbraio 2025
L’Ucraina e «l’idea di pace» di Trump: perché è una prova per l’Europa e per noi.
Paolo Giordano e i tre anni dall’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe di Mosca: «La pace di Trump è fatta anche di un elemento che non avevamo previsto: l’estorsione. Da questi giorni dipenderà molto di più del futuro di tutti noi di quanto siamo disposti a credere» A volte si dovrebbe immaginare il caos mondiale racchiuso in poche righe, nei libri di storia del futuro: «Tre anni dopo l’invasione dell’Ucraina, la presidenza americana cambiò bruscamente rotta, passando dal supporto all’ostilità. In questo quadro mutato l’Europa...».
Nell’ultima frase non ci sarà spazio per descrivere i dilemmi di opportunità, nemmeno per trattare l’Italia come un soggetto distinto. Solo per riassumere quello che l’Europa alla fine avrà fatto o deciso di non fare. Al di là dei calcoli immediati, al di là delle inclinazioni dei singoli politici, molto oltre la contingenza. Alcuni leader sembrano averlo capito. A volte, anticipare la prospettiva storica non è un esercizio retorico. Semplifica il contesto. Liquefà la paura.
Per il momento, purtroppo, il fiato per parlare è rimasto soprattutto a chi aveva atteso acquattato la propria occasione, un cambio di vento favorevole. Espressioni riaffiorano alla superficie, «la guerra per procura degli Stati Uniti in Ucraina», «l’allargamento della Nato a est», «gli interessi di Zelensky», le farneticazioni varie sulla «pace». Con una differenza rispetto a prima: se quella pace che molti politici e commentatori avevano in mente era fino a qui incomprensibile, offuscata da un velo di mistificazione, adesso Trump l’ha scoperchiata. Ed ecco di cos’è fatta: di falsità, di sottomissione ma anche di un elemento che non avevamo previsto – l’estorsione.
La fortuna dei predicatori falsi è che non mollano mai. L’opinione pubblica sensata si evolve, ed evolvendosi lascia andare. Si distrae anche. I falsi predicatori no. Che si tratti di negazionisti del Covid o di antiucraini, aspettano che la loro versione della realtà trovi la sua chance. A quel punto sono da soli sul proscenio. Non occorre più nemmeno camuffarsi, nascondere la sostanza in giri di parole. Possono dissentire su quasi tutta la vertiginosa agenda Trump, anzi è spesso così, ma salvano il singolo pezzetto che gli conviene, lo isolano accuratamente dal resto e lo usano per legittimare finalmente la propria posizione, troppo a lungo maltrattata dal «pensiero unico», dal mainstream. Se questo processo selettivo porta a contraddizioni vistose, se dà origine a paradossi, tanto peggio. L’ha comunque detto niente meno che il presidente degli Stati Uniti d’America. Per molti inizia così il riscatto, l’orgoglio ritrovato. Orgoglio antiscientista. Orgoglio antiucraino. Orgoglio antieuropeo. Da veri campioni quali sono, Trump e Musk e Vance racimolano questo consenso sbriciolato, lo accumulano, nella totalità diventa enorme. Vanno oltre: inaugurano il tempo della vendetta. Il tempo della rappresaglia. Il tempo dei predatori alfa. La verità arretra un altro po’, intimorita.
Mentre si produce la riconfigurazione delle opinioni su larga scala, qualcosa di reale è già accaduto: la guerra che uccide gli ucraini è passata di nuovo sopra le teste degli ucraini. Kiev esclusa dal tavolo negoziale. Il martirio sovrascritto.
Perciò ho chiamato K. Per rimettere almeno a posto il mio baricentro emotivo. K. era a Kiev per una commemorazione del poeta Maksym Kryvstov, morto al fronte a trentatré anni. La volta scorsa il padre di Maksym le sedeva a fianco e ha pianto tutto il tempo. K. si chiede se oggi reggerà, se reggerà lui, se reggerà lei. Ma questo genere di racconti è lontano che da noi, da me. Non ci permea più, figurarsi se ci modifica. K. mi parla della playlist che ha in testa, delle canzoni che molte persone le hanno chiesto di suonare al loro funerale, in caso di. Custodisce quei testamenti musicali, si ripete spesso l’elenco per non dimenticarlo. Anche questo: troppo lontano.
Vado dritto al punto, alla metamorfosi della politica internazionale, a Donald Trump e Keith Kellogg, al meeting frettoloso di Parigi. Per una stagione la nostra presidente del consiglio è stata un mito per i giovani ucraini, il suo discorso senza ombre a Kiev, pronunciato a fianco di Zelensky. «L’Italia non intende tentennare in questa vicenda, e non lo farà... L’eroica reazione di un popolo...».
Era due anniversari fa. Un altro mondo. Spiego a K. che adesso la nostra presidente è in difficoltà sull’Ucraina, molto più silenziosa. Ieri, al congresso dei conservatori, ha avuto la fermezza di ricordare che il valore della libertà, «sacro» per l’Occidente, non può prescindere dalla libertà dell’Ucraina, ma l’aggressore è rimasto senza nome, uno dei tanti «nemici esterni». Un passaggio rapidissimo. K. ne è sinceramente dispiaciuta. «Non sappiamo più con che parole dirlo agli altri europei. Un accordo come quello di cui si parla sarebbe solo una concessione alla Russia, una pausa per dare a Putin il tempo di riorganizzarsi militarmente. Dopo non si fermerà». Mi fa presente che dopo tre anni ci sono centinaia di famiglie che non hanno ancora riavuto i corpi dei loro parenti uccisi. «Ma vengono a parlarci dell’importanza di indire le elezioni qui.» Donald Trump sta imponendo a una parte di mondo la religione del pragmatismo. Ma il suo pragmatismo non è nulla in confronto a quello di ogni ucraino e di ogni ucraina alla fine del terzo anno di invasione, me ne rendo conto parlando con K. Peggio, quello di Trump è un pragmatismo fasullo. K. dice: «Ho quarant’anni e sono lucidamente pronta a morire per quello che so essere giusto. Ma i miei figli: con che idea del mondo cresceranno se si lascia che l’aggressore esca impunito, anzi premiato? Mi rendo conto che sto restringendo ogni giorno di più il mio essere madre, perché non ho risposte da dare loro». Le chiedo in cosa è diverso questo terzo anniversario dai precedenti e lei risponde alla mia domanda con una raffica di altre domande: «Tu sai come usare un tourniquet? Sai come cucinare su un fuoco arrangiato fra le macerie? Sai come comportarti se una bomba ti esplode vicino? Io sì. Noi sì. Tutti. Ormai siamo pronti a sopravvivere».
Ha raccolto altre dichiarazioni per me, dal fronte. Fedir Rudyj, un altro poeta soldato: «Chi ha il coraggio di guardare negli occhi i sopravvissuti delle migliaia di famiglie distrutte e dire che la colpa è loro? Per poi negoziare tranquillamente con l’assassino...». Yulia Kukulya-Danylyuk, bibliotecaria a Kapitolivka, in quel che rimane di Kapitolivka: «Cerco risposte nei libri che ho qui, ma non le trovo... Guardo i miei giovani visitatori e non so come spiegargli che sono condannati solo perché sono nati ucraini».
In ogni testimonianza ci sono il dolore, la stanchezza, la delusione, la preoccupazione, inutile nasconderlo. Ma le frasi sono anche improntate, tutte, alla stessa dura asciuttezza: qui continueremo a fare quello che dev’essere fatto, con ciò che avremo a disposizione. Ci siamo riusciti all’inizio, senza munizioni, ci riusciremo ancora. Forse è il momento peggiore dell’invasione, forse no, non importa davvero, come non importa chi governa adesso il mondo.
Il messaggio di Roman arriva da una postazione di combattimento, scritto appena ha finito di pulire la casa dove si trova il suo plotone dopo che una bomba guidata ha distrutto quella a fianco: «Sono in prima linea da otto anni. Probabilmente ho visto tutto quel che c’era da vedere. Ma mi sono reso conto che a uccidere è più l’indifferenza dei proiettili. L’Europa deve unirsi». L’Europa deve unirsi.
Lo farà, non lo farà, l’Italia sceglierà il posto giusto o soccomberà a un calcolo d’interesse. È tutto aperto. Ciò che è sicuro è che da questi giorni dipenderà molto di più del futuro di tutti noi di quanto siamo disposti a credere. Da parte mia so anche come vorrei che fosse completata quella frase nei manuali di storia: «Tre anni dopo l’invasione dell’Ucraina, la presidenza americana cambiò bruscamente rotta, passando dal supporto all’ostilità. In questo quadro mutato l’Europa si oppose alle nuove potenze imperialiste, facendosi portavoce delle istanze del popolo ucraino».