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 2025  febbraio 23 Domenica calendario

Biografia di Bruno Gambarotta.

Cresciuto ad Asti, amico d’infanzia di Paolo Conte, a Roma arrivò per fare la tv. E ai tempi del monopolio fu cameraman, programmista e conduttore accanto a Celentano e Costanzo Ma senza afferrare il potere. “Ero solo uno sherpa” dice adesso. 

Ottantasette anni, Bruno Gambarotta (da non confondere con Gambacorta «non sai quante delusioni mi ha dato quello scambio di nomi») è un piemontese che ha fatto dell’umorismo la sua veste leggera. Ha pubblicato un libro sfizioso: Fuori programma (Manni), le memorie dei quarant’anni trascorsi in Rai. Sembrano giungere dal “sottosuolo”. 

«Spero non da sottoterra», dice ironico, quasi in perfetto equilibrio tra Dostoevskij e Macario. 

In Rai sei stato tante cose: cameraman, programmista, conduttore, hai affiancato celebrità come Celentano e condotto trasmissioni di successo riesumate come “Lascia o Raddoppia?”. Anche tu underdog?

«L’underdog parte da sfavorito in una competizione e sovverte il pronostico. È un ultimo che arriva primo, senza che nessuno lo abbia visto arrivare. Io non mi sono mai messo in gara. Se proprio mi vuoi definire, mi si confà l’immagine dello “sherpa”».

Ti piaci in questo ruolo?

«Non sono mai stato un maschio alfa. Ricordo che alle feste i miei compagni ballavano e fumavano, io cambiavo i dischi e detestavo il fumo. Non sono mai stato uno sportivo. Sono monogamo, sposato con la stessa moglie da 59 anni. Troppo faticoso tradire o, peggio, avere due famiglie!»

Eri tutto casa e Rai.

«In quarant’anni non ho mai fatto un giorno di malattia. La mia dote principale è la resistenza».

Cos’altro ti piace di te?

«Non aver mai aspirato a stare sul ponte di comando. Il mio posto ideale è la sala macchine. Lì sotto, nel fumo e nel vapore, l’aspetto fisico non ha molta importanza». 

A proposito di aspetto fisico: hai una somiglianza impressionante con l’ex presidente Giovanni Leone.«Oggi ho un’aria più mefistofelica. Ma è vero, gli somigliavo. Nanni Loy mi truccò da lui per una scenetta da girare su un treno. I passeggeri dovevano fingere di non riconoscermi. Io seduto tra loro e un attore vestito da cameriere che mi serve lo champagne. Peccato che non si girò. Quando era tutto pronto, i vertici della Rai bloccarono la scena. C’era il rischio del vilipendio».

Il vertice dei vertici allora era Ettore Bernabei.

«Nei quindici anni del suo regno è stato il nostro Conte Zio, il personaggio manzoniano che dice al Padre Provinciale: “Sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire”. A Bernabei si attaglia la descrizione che Saint-Simon nelle Memorie fa del duca di Noailles: “Eguale facilità a lodare o biasimare lo stesso uomo o la stessa cosa, secondo la persona con cui si parla”».

Si chiama carota e bastone.

«Non ho mai conosciuto nessuno cui piacesse il bastone».

Come lo evitavi?

«Ero uno sherpa, non prendevo vere decisioni. Facile perciò evitare la reprimenda. Però voglio dirti una cosa».

A proposito di che?

«Della censura in Rai. I casi clamorosi del passato sono relativamente pochi. Per il semplice motivo che la censura che abbiamo messo in pratica era una forma di autocensura. Sarebbe stata solo un’inutile perdita di tempo portare avanti proposte destinate a essere scartate». 

La Rai ha una storia lineare e complessa. Si è passati dalla televisione pedagogica a quella commerciale e infine narcisistica. Oggi come la definiresti?

«È una Rai che galleggia sulla palude. Si muove a vista cercando di non sprofondare. Non ha un disegno o un progetto, tende solo a sopravvivere. Esattamente come l’Italia in questa stagione». 

Si dice spesso che sia la più grande azienda culturale del Paese.

«Sicuramente lo è stata. Soprattutto quando aveva il monopolio era la più grande agenzia di collocamento per autori in difficoltà finanziaria. Si commissionava il copione di un originale televisivo da realizzare in studio della durata di un’ora e con pochi personaggi. Alla consegna il copione veniva ricompensato, non con cifre stratosferiche, e finiva in un armadio». 

Tra gli scrittori che hanno lavorato in Rai c’era Andrea Camilleri.

«Praticava il culto dell’amicizia ed era prodigo di attenzioni. Un affabulatore meraviglioso. I suoi racconti orali erano ipnotici. Da ragazzo sognava di diventare ammiraglio. Più Conrad che il commissario Montalbano». 

Un’altra presenza importante è stata Angelo Guglielmi.

«Dotato di una curiosità mostruosa, amava il rischio e l’avventura. In ogni famiglia deve esserci uno scavezzacollo». 

È vero che dietro il primo grande successo di Maurizio Costanzo c’era Guglielmi?

«Guglielmi aveva visto un talk show innovativo sulla tv francese, mi chiese di contattare Costanzo. Voleva tentare di proporlo in Italia. Ci vedemmo e Maurizio ebbe l’idea geniale di creare una specie di salotto con una porta che si apriva all’inizio e poi si chiudeva alla fine del programma. Suggerii come titolo Bontà sua. Costanzo lo corresse: Bontà loro. Così nacque il primo talk show di successo. Ma all’inizio nessuno ci credeva».

Chi non ci credeva?

«I capistruttura che si rifiutavano di inserirlo nel loro palinsesto. Alla fine fu Paolo Valmarana a cederci uno spazio dopo il film del lunedì. Il successo imprevisto fece sì che tutti a quel punto volessero avere in programma Bontà loro. Maurizio Costanzo non era un uomo, era un’agenda vivente, con nomi e recapiti di tutti quelli che potevano servirgli nel suo lavoro».

Hai frequentato anche Carmelo Bene.«Imprevedibile e tirannico. Poteva abbandonarsi a scene selvagge di ira e di collera contro gli attori. Ricordo le prove per un allestimento di Otello. Facevo una fatica enorme a trascinarlo alle prove. Si inchiodava al bar ingollando qualsiasi alcolico. Era una pena infinita vederlo autodistruggersi».

Non era posa?«Non credo recitasse il ruolo dell’artista maledetto. No, non era una posa ma dolore vero». 

Un altro personaggio complicato con cui hai lavorato è stato Adriano Celentano.

«Sono trascorsi 38 anni dall’avventura con il Molleggiato. Sono tentato di attribuire a Celentano una dichiarazione di Thomas Hobbes: “L’unica passione della mia vita è stata la paura”».

Che cosa temeva?

«Che volessero sfruttarlo e prenderlo in giro. Aveva creato il Clan come un fortino dentro cui difendersi. Ma è troppo complicato per poterlo spiegare a fondo».

Hai scritto che di Pasolini ricordi solo le scarpe.

«Mi ero da poco trasferito a Roma. Accompagnai Adriano Aprà da Pasolini, all’Eur. Ho una vaghissima memoria dei complicati discorsi che imbastì sul tema dello strutturalismo, moda culturale appena arrivata in Italia, mentre mi si stagliano vividi nella memoria i suoi mocassini in pelle di leopardo. Ne avevo visti il giorno prima un paio uguali esposti in via Condotti, costavano 220 mila lire. Il mio stipendio di allora».

Sei nato povero?«No, mia madre aveva un negozio di parrucchiera e mio padre da tipografo aveva scalato la sua piccola vetta diventando proto, ossia il capo stampatore. Da piccolo sognavo di fare anch’io il tipografo. C’è stato però un momento difficile».

Quando?«Dopo un’alluvione, il 4 settembre 1948. La tipografia fu devastata dalle acque. Mio padre perse il posto. Per due anni tirammo avanti con il lavoro di parrucchiera della mamma. Io e papà facevamo i lavori di casa. Credo sia nata lì la mia inguaribile vocazione per il posto fisso».

Sei nato dove?

«Ad Asti; ho vissuto fino a 18 anni in una casa dentro il ghetto ebraico della città. Cosa, oltretutto, che scoprii per caso leggendo il romanzo "I giorni del mondo" di Guido Artom, dove si narrano le vicende della comunità ebraica di Asti».

Cosa hai scoperto?

«Scoprii che i tunnel sotterranei che collegavano tra di loro le case del ghetto, che noi bambini usavamo per giocare, erano stati scavati affinché gli ebrei potessero aggirare il divieto per cui non potevano uscire di casa dopo il tramonto».

Oltre te e i tuoi genitori chi c’era in famiglia?

«C’era mio fratello Franco, più piccolo di 5 anni, la nonna paterna Teresa rimasta vedova e zia Emma, una sorella più giovane di mia madre. In tutte le famiglie che ho avuto modo di conoscere e frequentare sono sempre state le donne a decidere e comandare».

A chi eri più legato?«A mio padre Mansueto. Era un bell’uomo. Nel vano tentativo di assomigliargli porto i baffetti come i suoi. E poi la zia Emma che mi regalò "L’isola del tesoro". Per me Robert Louis Stevenson non è un semplice scrittore, è molto di più, un narratore. Come Conrad o Simenon. Una specie rara». 

So che leggevi i rotocalchi rosa nel negozio di tua madre.

«Da piccolo trascorrevo interi pomeriggi parcheggiato nel negozio della mamma. Leggevo, ma a volte facevo finta di leggere, le riviste femminili che mia madre prendeva per le clienti».

In che senso?«Ascoltavo le confidenze assatanate che le signore cariche di bigodini si facevano sui loro tradimenti. C’era la guerra, gli uomini al fronte. Sai come va. Storie di accoppiamenti con pensionati e seminaristi. Per tornare alle mie letture, fondamentale fu la scoperta della biblioteca di Asti. Fu una manna dal cielo. Come sorprendente l’attrazione che mi trasmise Guido Ceronetti per la lettura delle lapidi e dei necrologi».

A volte così severamente comici.

«“È volato in cielo con la sua macchina”, lessi, oppure “Dopo lunga malattia è scomparso dentro il suo letto”». 

La stravaganza, l’erudizione e il talento letterario di Ceronetti sono noti. Hai una definizione per l’intellettuale piemontese in generale?

«La parola che mi viene in mente è “sprezzatura”. Appartiene a coloro che parlano di cose profonde o complesse con naturalezza e familiarità, nascondendo l’arte e la fatica di ciò che fanno. Penso a Roberto Longhi, che era di Alba, a Gianfranco Contini che veniva da Domodossola, a Umberto Eco cresciuto ad Alessandria. E ai torinesi: Carlo Dionisotti, Giacomo Debenedetti, Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Massimo Mila». 

Nella tua città sono nati, tra gli altri, Paolo Conte e Giorgio Faletti. C’è qualcosa che invidi all’uno o all’altro?

«Il mio primo ricordo di Paolo è legato a un libro. Avevo 15 anni, comprai "Il mestiere di vivere" di Cesare Pavese. Amavo talmente Pavese che volevo somigliargli. Perciò misi su un paio di occhiali pesantissimi, simulando la perdita della vista. Mi vantai del libro con Paolo e lui rispose: “guarda, lo ha appena letto mio padre, dice che Pavese era un imbranato con le donne!”. Per me fu una coltellata. Mi tolsi definitivamente gli occhiali. A Paolo invidio l’alone che lo circonda, il suo meraviglioso esotismo di provincia, la sua disinvoltura. Giorgio Faletti è morto troppo presto: gli invidio i ricordi che ha lasciato della nostra amata Asti». 

Faletti è stato un uomo di spettacolo, un comico, un cantante che ha scoperto di essere anche uno scrittore, per giunta di successo. Anche tu hai scritto romanzi, dedicandoti al genere giallo.

«Il giallo è la via più facile e redditizia per un successo. Immediato ma volatile. Purtroppo escono vagonate di gialli a cui contribuisco, ahimè».

Un tuo successo è “Il codice Gianduiotto”.

«È nato dalla mia insana voglia di sperimentare il genere della parodia letteraria. Il codice da Vinci di Dan Brown ha fatto una grande fiammata che però si è spenta, portando con sé nella tomba il mio povero Gianduiotto». 

Quarant’anni di Rai. Cosa ti manca di quel mondo?

«Le persone, i loro racconti, i tic, i pettegolezzi, le debolezze, le insane passioni, le litigate sulle più trascurabili sciocchezze. Non mi manca la mia vecchiaia che tristemente evapora e combatto, per quel poco, con il muscolo della memoria, sforzandomi di rispondere alle tue domande».